Gianni Brera, ricordando l'Ariosto plebeo della Bassa
CalcioSono passati vent'anni dal giorno della sua morte in un incidente stradale. Si definiva un barbaro di fiume, è diventato un Classico della letteratura. Amori, libri, passioni, linguaggio (inimitabile) del più grande giornalista sportivo italiano di sempre
di PAOLO PAGANI
Fanno vent’anni stanotte che il Principe della Zolla non c’è più. Colpa di una notte sporcata dal bang di un incidente disonesto, quando il Gioannbrerafucarlo, alias Gianni Brera, venne rubato alla vita da una curva inzuppata di umidità bassaiola (della Bassa milanese).
Un barbaro di fiume, sgorgato ai confini tra Zio Ticino, Padre Po e Madre Olona, dove tre fiumi scivolano al ralenti e fanno da millenni il pediluvio ai pioppi pigri. L’Ariosto plebeo dello sport cantava, come il Ludovico, l’armi e gli amori. Sempre gli stessi: il calcio, o folber, e la pacciada, il cibo e il vino. Brera fu il profeta buono di una lingua carnivora, opulenta, inimitabile. E come il suo amico Ottavio Missoni ama ripetere con un paradosso sprint quando sforna le sue giubbe-patchwork policrome (I xe tremila ani che i Maya me copiano, son tremila anni che mi imitano...), così il Gioann aveva il babbo putativo nell’ingegner Carlo Emilio Gadda e nel suo pastoso prosare. Scrittori, insomma. Che la velocità di una rotativa da accendere trasformava in cronisti, ma era solo questione di tempi produttivi, mica di qualità e lignaggio.
Si sono sprecati in tantissimi a tributarlo, a riconoscere in Brera un Classico della letteratura. Puro vangelo laico (e perciò minuscolo). Il Gioann è un Classico perché abita ogni tempo. Un grande narratore perché grandissimo era il suo appetito per la vita. Le partite a carte, la Bonarda, i fiumi, i sigari, il trip per la ricognizione antropologica (la fissazione per le origini gallo-cimbriche di un campione ammirato).
Brera il Bassaiolo scriveva sprigionando afrori di strutto, fagioli lessi, pane grosso, sabbioni dell’Olona. Dipinse ritratti secondo stilemi che nessuno seppe più emulare, ma molti tentarono di imitare, dopo di lui. Brera fu un atleta dell’Olivetti nell’epoca che ancora non conosceva Microsoft (120 cartelle la settimana il record di cui andava fiero: credo imbattuto). La tavola, il ciclismo, l’epos dei poveri cristi, il calcio come mistero agonistico, l’amicizia. Ecco cos’era, e non si è detto tutto.
Chi è passato da Il Giorno, negli anni post-breriani orfani della diaspora del Nostro su altre colonne di piombo, sa cosa vuol dire il sostantivo Culto. Nel quotidiano lombardo che si identificò con i cognomi delle più grandi firme del giornalismo italiano, Gioann era il Totem. Ma chi si sognava di farne un monumento sigillato nella forfora del museo, citandolo magari a sproposito, si sentiva apostrofare dal caporedattore di turno: te set un pirla. Sei solo un pistola. Le due sillabe di quel cognome celtico non andavano nominate invano, insomma. Vent’anni dopo, Gioann vive e lotta assieme a noi, amen e soprattutto cin cin.
Fanno vent’anni stanotte che il Principe della Zolla non c’è più. Colpa di una notte sporcata dal bang di un incidente disonesto, quando il Gioannbrerafucarlo, alias Gianni Brera, venne rubato alla vita da una curva inzuppata di umidità bassaiola (della Bassa milanese).
Un barbaro di fiume, sgorgato ai confini tra Zio Ticino, Padre Po e Madre Olona, dove tre fiumi scivolano al ralenti e fanno da millenni il pediluvio ai pioppi pigri. L’Ariosto plebeo dello sport cantava, come il Ludovico, l’armi e gli amori. Sempre gli stessi: il calcio, o folber, e la pacciada, il cibo e il vino. Brera fu il profeta buono di una lingua carnivora, opulenta, inimitabile. E come il suo amico Ottavio Missoni ama ripetere con un paradosso sprint quando sforna le sue giubbe-patchwork policrome (I xe tremila ani che i Maya me copiano, son tremila anni che mi imitano...), così il Gioann aveva il babbo putativo nell’ingegner Carlo Emilio Gadda e nel suo pastoso prosare. Scrittori, insomma. Che la velocità di una rotativa da accendere trasformava in cronisti, ma era solo questione di tempi produttivi, mica di qualità e lignaggio.
Si sono sprecati in tantissimi a tributarlo, a riconoscere in Brera un Classico della letteratura. Puro vangelo laico (e perciò minuscolo). Il Gioann è un Classico perché abita ogni tempo. Un grande narratore perché grandissimo era il suo appetito per la vita. Le partite a carte, la Bonarda, i fiumi, i sigari, il trip per la ricognizione antropologica (la fissazione per le origini gallo-cimbriche di un campione ammirato).
Brera il Bassaiolo scriveva sprigionando afrori di strutto, fagioli lessi, pane grosso, sabbioni dell’Olona. Dipinse ritratti secondo stilemi che nessuno seppe più emulare, ma molti tentarono di imitare, dopo di lui. Brera fu un atleta dell’Olivetti nell’epoca che ancora non conosceva Microsoft (120 cartelle la settimana il record di cui andava fiero: credo imbattuto). La tavola, il ciclismo, l’epos dei poveri cristi, il calcio come mistero agonistico, l’amicizia. Ecco cos’era, e non si è detto tutto.
Chi è passato da Il Giorno, negli anni post-breriani orfani della diaspora del Nostro su altre colonne di piombo, sa cosa vuol dire il sostantivo Culto. Nel quotidiano lombardo che si identificò con i cognomi delle più grandi firme del giornalismo italiano, Gioann era il Totem. Ma chi si sognava di farne un monumento sigillato nella forfora del museo, citandolo magari a sproposito, si sentiva apostrofare dal caporedattore di turno: te set un pirla. Sei solo un pistola. Le due sillabe di quel cognome celtico non andavano nominate invano, insomma. Vent’anni dopo, Gioann vive e lotta assieme a noi, amen e soprattutto cin cin.