Conte e il "mourinhismo": se lo psicologo siede in panchina

Calcio
Antonio Conte abbraccia i suoi ragazzi: scena "mourinhana" che si ripete al termine di ogni partita vinta (Foto Getty)

Dopo aver recuperato Giovinco, il tecnico bianconero ha vinto l'ennesima battaglia. L'ha fatto con le stesse "armi" che usano Rodgers al Liverpool e Simeone all'Atletico Madrid. Una filosofia agli antipodi del "guardiolismo" di Ancelotti e Benitez

di Vanni Spinella

Il lungo e il corto. State certi che se in squadra ci fosse stato anche “il pacioccone”, Conte avrebbe difeso pure lui. Llorente e Giovinco, separati da circa 30 cm di altezza, sono accomunati dal modo in cui il loro allenatore li ha protetti dalle critiche: con le unghie e con i denti, contro tutto e tutti. Prima lo spagnolo, che ad inizio campionato sembrava destinato a non trovare posto in una Juventus già praticamente perfetta. Il tecnico predicò pazienza: non farlo giocare perché non ancora perfettamente integrato negli schemi era il suo modo di difenderlo. Il modo in cui Llorente l’ha ripagato (14 gol, di cui tanti decisivi) è sotto gli occhi di tutti. Poi, come una brava chioccia farebbe con i suoi pulcini, compresi i Calimeri, il tecnico bianconero si è messo sotto l’ala anche Giovinco, protetto dalla pioggia di fischi dei suoi stessi tifosi durante Juventus-Chievo, fino alla trasformazione contro l’Udinese. Ancora una volta aveva ragione lui.



MOURINHISMO: l'allenatore parafulmine
L'ALBUM: chi è Mou, una vita da Special One

La figura del tecnico-parafulmine, in realtà, non è nuova. In tempi moderni l'ha incarnata alla perfezione José Mourinho, capostipite di una specie di scuola di pensiero. Lo Special One ha agito così al Porto, conducendo un manipolo di semisconosciuti a sollevare la Champions; al Chelsea, riempiendo la bacheca di Abramovich; all’Inter, arrivando a far piangere uno come Materazzi al momento dell’addio. Il trucchetto non gli è riuscito al Real Madrid, dove ha esasperato il concetto di “noi contro tutti”. Tutto puoi dire o far credere alla gente a proposito del “grande Madrid”, tranne che sia povero, indifeso e vittima di complotti. Il segreto di Mou? Manipolare le emozioni. Probabile che nella sua biblioteca si trovi un grande classico della psicologia sociale, “Le armi della persuasione”, in cui Robert Cialdini identifica e descrive i sei meccanismi che - più o meno inconsciamente - utilizziamo quando vogliamo convincere qualcuno a fare qualcosa per noi. José lo fa in maniera scientifica, altro che inconscio, come spiega bene Sandro Modeo nel saggio “L’alieno Mourinho”.

Di scuola Mourinho è Brendan Rodgers, allenatore del sorprendente Liverpool in vetta alla Premier: allievo dello Special One ai tempi della prima era-Chelsea (era il tecnico delle giovanili), Rodgers ha imparato subito i trucchi del maestro. Puntando tutto sul gruppo ha condotto in Premier League lo Swansea, lavorando sulla motivazione ha dato nuovi stimoli a gente come Gerrard, capace ora di raccogliere in un abbraccio i compagni dopo la vittoria sul Manchester City, caricandoli in vista della prossima. Alla corrente del mourinhismo si iscrive anche Diego Pablo Simeone: da centrocampista, il genere di generale che sarebbe piaciuto a Mou; da allenatore, uno che sa tirare fuori il meglio da tutti i suoi uomini. Semifinale di Champions eliminando il Barça, la vetta della Liga mettendo i piedi in testa al Real: eppure, non puoi identificare il suo Atletico in un uomo solo, come faresti se disponesse di fenomeni alla Messi o Cristiano Ronaldo.

GUARDIOLISMO: quel piccolo mondo perfetto
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Di recente sono diventati di dominio pubblico alcuni dialoghi tra Guardiola e i suoi giocatori, quando il tecnico si insediò sulla panchina del Barcellona. Quello che colpisce maggiormente è il confronto che ebbe con Xavi, all’epoca corteggiatissimo dal Manchester United. Pep lo convocò nel suo ufficio e non ci girò tanto intorno: “Non vedo questa squadra senza che ci sia tu nell’undici titolare. Non potrebbe funzionare niente senza di te”. Xavi restò, e intorno a lui iniziò a girare il Barça più bello di sempre. Qualcosa di simile, poi, fece con tanti altri: a Victor Valdes illustrò un calcio in cui il portiere era colui che faceva ripartire l’azione, dalla propria area; a Busquets e Pedro aprì le porte della prima squadra; a Messi fece apprendere l’arte del falso nueve, prodiga di gol e record. In una sorta di “villaggio dei Puffi” in cui tutti fanno bene il proprio compito e tutti si vogliono bene, solo Ibra si trovò a disagio. Il “guardiolismo” non fa per gente come lui. Se un compagno sbaglia, Zlatan lo fulmina con lo sguardo, non gli dà una pacca sulla spalla. Nel magico mondo di Pep, invece, regna la serenità. Non c’è bisogno di caricare a pallettoni i giocatori, come farebbe Mou; non chiede ai suoi di mangiare pure l’erba del campo o di far sentire i tacchetti agli avversari. Le squadre di Pep fanno un pressing altissimo, ma in modo quasi signorile. Recuperano palloni senza bava alla bocca.

È anche il metodo di Carletto Ancelotti, affamato sì di vittorie e trofei, ma che non per questo rinuncerebbe mai al proprio stile. Pacioso e pacato anche nel momento della sconfitta: al massimo si alza un sopracciglio. Stessa scuola di Rafa Benitez o Manuel Pellegrini: convinti delle proprie idee e forti del lavoro svolto in settimana, alla domenica non vedono che bisogno ci sia di sbracciarsi o urlare. Anche se poi, magari, da soli nel salotto di casa, provano le scivolate sulle ginocchia alla Mourinho. Così, giusto per vedere l’effetto che fa.