Banane e rancori, tutto ciò di cui il calcio non ha bisogno

Calcio
Carlo Tavecchio, candidato alla presidenza della Figc (Getty)

L'infelice uscita di Carlo Tavecchio ha generato polemiche e perplessità circa la sua candidatura alla presidenza della Figc. Luoghi comuni (sui nuovi italiani) e idee inadeguate non possono portare al superamento della crisi del nostro pallone

di Massimo Corcione

Se tu dici una cosa da un palco in piazza a Ponte al Lambro, è possibile che l’eco delle tue parole arrivi tutt’al più a Como, se tu parli da (candidato) presidente della Federcalcio quattro volte campione del mondo, quel che hai detto fa il giro del mondo e ti ritorna con un carico di insulti da non poter mettere più la faccia al balcone, neppure dopo una smentita. Soprattutto se tu associ un calciatore nero a un mangiatore di banane.

Roba da fumetti del Ventennio che oggi non fanno più ridere, anche se qualche fesso in giro per gli stadi d’Europa in vena d’emulazione lo trovi sempre. Carlo Tavecchio, classe 1943, il Ventennio lo ha solo sfiorato, ma devono essergli rimaste delle scorie, pronte a riemergere alla prima occasione. Involontariamente ha sfruttato il discorso della candidatura per ribadire le distanze da Prandelli che la banana la mangiò per solidarietà con Dani Alves, non per dire peste e corna di Balotelli o di Ogbonna.

Il problema non è la forma, è il contenuto. Il calcio italiano per uscire dalla crisi ha bisogno urgentissimo di idee, non di luoghi comuni. I nuovi italiani, molti arrivano proprio dal paese di Opti Pobà, sono la nostra speranza: come potrà puntarvi un dirigente che oggi li chiama mangia banane? Oppure uno (sempre Tavecchio) che in panchina vorrebbe mandare per un giorno Rivera, proprio come Valcareggi a Mexico ’70. Parole in libertà, vigilata però. Vigilata da chi Tavecchio prova a imporlo, fino a prova di ripensamento. Il passato in lui è una costante, il futuro un’ipotesi sfumata. Esattamente ciò di cui il calcio italiano non ha bisogno.