Con i campionati fermi a causa dell'emergenza coronavirus, Paolo Condò ha ideato una rubrica, sulla sua pagina di Twitter, in cui racconta ogni giorno aneddoti e curiosità vissuti in prima persona negli stadi più belli e iconici al mondo durante la sua esperienza professionale. Queste le storie fin qui pubblicate
SAN CRISTOBAL, VENEZUELA. "Nel 1977 Francesco Moser vinse qui il Mondiale di ciclismo. È la fascia pre-andina del Venezuela, 900 metri d’altezza ma lo stadio, che confina con la giungla, è più elevato: per salire in tribuna stampa attraverso letteralmente una nuvola. Vedo l’Uruguay battere 1-0 il Venezuela, estate ‘93, qualificazioni mondiali. Segna Pepe Herrera, all’epoca del Cagliari. L’aeroporto è una striscia di asfalto dentro alla foresta. Ho ancora un debito con un fotografo di lì: 150 dollari, dovevamo vederci al gate ma lui non venne"
GEWISS STADIUM, ITALIA. "Da ieri sera (17 marzo ndr), da quando ho visto la foto terribile del convoglio militare con il carico che sapete, il mio unico pensiero è un omaggio a Bergamo. Alle grandi domeniche nello stadio dell’Atalanta. Agli amici di tribuna e di vita. A chi è andato in fuga già da tempo, ciao Titta. E quindi oggi non vado lontano, non c’è impianto di serie A più vicino a casa mia. Non c’è luogo più dolce di Bergamo Alta dove bighellonare prima della partita, non c’è parcheggio più nobile del Lazzaretto e mai avrei pensato che una parola simile sarebbe tornata d’attualità. Per me sarà sempre lo stadio della meglio gioventù. Ci ho ammirato Donadoni. Sono andato fuori di testa per Morfeo. Mi piaceva tanto Pazzini. Pensavo di più per Locatelli. Ricordo il bel debutto di Tacchinardi. Ma una Dea è fatta per proteggere. Coraggio, allora. Coraggio"
ELLIS PARK, SUDAFRICA. "Il varo di quel Titanic che fu l’Argentina di Maradona c.t. avviene il 12 giugno 2010 a Johannesburg in uno stadio mitico: Ellis Park. Lo raggiungo ben prima del fischio d’inizio per i temuti problemi di traffico, e perché non voglio perdermi lo show. Il caravanserraglio al seguito della Seleccion è unico. Immaginate Mara Venier e Barbara D’Urso aggregate alla spedizione con i loro circhi al completo: nani, ballerine, opinionisti trash, miss mondo o giù di lì. L’austero Park assiste a un infinito palinsesto di bollicine. Un colpo di testa del Gringo Heinze - uno che vorrei sempre dalla mia parte - risolve il match con la Nigeria. Diego esulta in un completo antracite che fa tanto matrimonio tra narcos. Stringe in mano un rosario, abbraccia ripetutamente le figlie e il nipotino Benjamin. Finisco il pezzo in tribuna stampa, nello stadio ormai silenzioso, e torno al Mondiale di rugby ‘95, quando Mandela premiò proprio qui il capitano degli Springboks Francois Pienaar: assieme avevano riavviato il Sudafrica. Sì, la sera prima avevo rivisto Invictus. Per commuovermi"
SAN SIRO, ITALIA. "Oggi ricordo breve e scritto in piedi. Tanti anni fa entrai per la prima volta a San Siro, luogo dell’anima se ce n’è uno, e lo sguardo corse subito al banco di Repubblica. Seduti accanto, Gianni Brera e Gianni Mura ridevano e fumavano e sembravano felici"
ROSE BOWL, STATI UNITI. "Caldo bestiale, 40 gradi dicono, e il consiglio dei più saggi è di restare in sala stampa fino all’ultimo. Ma dai. Sono al Rose Bowl di Pasadena per la finale mondiale, e me ne sto rintanato nell’aria condizionata? Quando fuori c’è Whitney Houston? 17 luglio 1994. Whitney arriva tenendosi per mano con Pelé, sale energetica sul palco e attacca “I wanna dance with somebody”. Trionfo. La tribuna stampa è contro sole, socchiudo gli occhi e distinguo su una panchina Tassotti e Billy, tristi e in borghese perché squalificati. I primi azzurri escono per il riscaldamento mentre Whitney sta finendo “I will always love you”. Brividi. Tre file dietro di me c’è Dustin Hoffman che saluta i giornalisti italiani. È malato di calcio, dicono. Davvero, nessuno pensa che l’Italia possa perdere quella finale. Tre ore dopo Gigi Riva fuma una sigaretta via l’altra davanti allo spogliatoio, guardiano dell’amarezza. È un orario tremendo per scrivere eppure nessuno gli fa fretta. Gigi ha per ognuno uno sguardo che è anche una carezza. Verrà il nostro giorno. Italia, I will always love you"
HUSEYIN AVNI AKER, TURCHIA. "La trasferta più divertente di sempre? Trabzonspor-Cagliari, 16esimi Uefa, ottobre 93. Partecipanti che ricordo: Sebastiano Vernazza, Gianni Cerqueti, Trani, Gentili, Maglie, Sasso, Colaiacomo. Primo problema: a Trebisonda c’è un solo hotel, noi si dorme a 40 km. In fondo al Mar Nero c’è un 2 stelle dove nessuno parla inglese. Cena faticosa: dopo una trattativa a gesti arriva del pesce rinsecchito. Olio? Oil? Huile? Zero. Cerqueti indica il collega Enzo Sasso e urla “Olio? Sasso!”. Aggiunti infine alcuni panetti di formaggio latteria. Nella notte si scopre che in diverse camere ci sono topi. Mi sveglia Ugo Trani. “Devi vedere in camera di Bruno”. Gentili ha scoperto sotto un termosifone una trappola per topi tipo quelle dei fumetti, col formaggio proprio. Ovviamente il latteria di cui sopra. Dormo vestito. L’indomani il Cagliari pareggia al 90’ con Dely Valdes. Escludo di uscire vivo dallo stadio Huseyin Avni Aker (ora in disuso): sediamo su semplici seggiole da bar in mezzo ai tifosi, il pari è una sentenza capitale. Invece no: ci guardano male, ma sfollano pacifici. Un miracolo"
IBROX, SCOZIA. "Edmiston Drive 150. È l’indirizzo di Ibrox, stadio dei Rangers, e un mattino d’autunno del 2009 ne varco i cancelli come se entrassi in chiesa. C’è l’Old Firm, il derby di Glasgow che in Scozia definiscono “il match di club più importante del mondo”. Dieci ore prima, le 2 di notte all’Hilton. Suona l’allarme, tutti in strada rapidi. Incrocio i giocatori del Celtic, in ritiro lì. Masticano un’insonnolita rabbia perché sanno che qualche tifoso rivale ha chiamato denunciando una bomba. Evacuazione. Controlli. Notte in piedi. Rivalità pesante, si gioca alle 12.30 per evitare che l’oscurità agevoli i teppisti. I Rangers hanno riposato bene e si vede: doppietta di Miller, finisce 2-1. I Celtic si dirigono affranti al Bairds Bar, il loro pub, i Rangers attaccano barili di Tennent’s alla Louden Tavern. Trasferta di lusso perché, potendo aggiungerci un giorno di ferie, mi sono organizzato una gita alle Highlands. Guido fino a Inverness passando per Loch Ness (no, niente mostro). Ma prima, il vero obiettivo: Eilean Donan Castle, l’avete visto al cine. Who wants to live forever?"
ESTADIO NACIONAL, CILE. "Oggi vado lungo perché l’Estadio Nacional di Santiago non si può liquidare in poche fuggevoli parole. Ottobre 2008: sono lì per un Cile-Argentina che segnerà l’addio di Basile e l’avvento in panchina di Maradona. Ma la storia, ovviamente, non è questa. Due giorni prima del match incontro Alberto “Gato” Gamboa, un bellissimo vecchio che nel 1973, ai tempi del golpe di Pinochet, dirigeva il Clarin, giornale più venduto. Gamboa, che un anno fa ci ha lasciato, venne imprigionato allo stadio dieci giorni dopo il colpo di Stato. Gamboa mi porta a visitare lo stadio. Mi racconta di due mesi di orrore. Mi dice che il Cile, pur tornato alla democrazia, non ha punito gli aguzzini di Pinochet: torturati e torturatori si incontrano oggi al supermercato. Penso sia l’intervista più pesante della mia carriera. Mi dice pure che la scena di Missing - film che mi strappò il cuore - nella quale Jack Lemmon cerca allo stadio il figlio scomparso, accadde davvero. Lui vide l’americano disperato ma privilegiato: nel film un ragazzo gli grida che a suo padre questo lusso non era concesso. La partita è una sinfonia del Cile di Bielsa. A fine gara i giornalisti piangono senza ritegno, non avevano mai battuto l’Argentina. Quando il c.t. compare in sala stampa lo subissano di genuina gratitudine. Bielsa, che ha la timidezza degli uomini puri, non alza nemmeno la testa"
SUPERDOME, STATI UNITI. "L’estate 2007 è quella del viaggio col mio amico Massimo Lopes Pegna: un coast to coast dall’Oregon a New York per raccontare 22 storie americane. Una me l’ero segnata due anni prima: quella del Superdome di New Orleans nei giorni terribili dell’uragano Katrina. Due anni dopo la casa dei Saints resta rabberciata. Ma il direttore del palasport racconta con orgoglio dei 25mila abitanti che vi trovarono scampo quel 29 agosto: erano gli ultimi della città, quelli che non avevano un’auto per fuggire né un posto su un pullman. I condannati. In questi giorni tristi mi conforta pensare che un grande impianto sportivo sia stato una navicella sicura in mezzo a una tempesta. Non un centro di contagio come San Siro per Atalanta-Valencia e nemmeno di tortura come lo stadio di Santiago raccontato ieri. Viva il Superdome"
AZADI, IRAN. "Azadi vuol dire libertà in lingua farsi, e a Teheran molte cose si chiamano così, dalla torre che è il simbolo della città all’albergo più lussuoso, allo stadio. Eccolo qui: 95mila posti, il quarto più grande del mondo. Ma andiamo all’aprile del 1998. L’Iran s’è qualificato al Mondiale di Francia e un sorteggio beffardo l’ha infilato in gruppo con gli Usa, grande Satana per gli ayatollah. Cannavò chiede aiuto al suo amico Moratti, che ha rapporti di petrolio con l’Iran. Salta fuori un visto per un quadrangolare premondiale. Il parterre è povero (Ungheria, Macedonia, Iran, Giamaica) ma l’occasione super. L’Azadi è un gigante sovrastato dalle immagini dei due ayatollah: Khomeini e l’autorità dell’epoca Khamenei. Donne non ammesse, ma noto una freccia per la toilette femminile: retaggio dello Scià. Mi godo i 5 giorni a Teheran, come sempre mi succede nei luoghi distanti dal nostro way-of-life. Mi fa da guida l’inviato del Corriere Renzo Cianfanelli che possiede un prezioso telefono satellitare. Mi intrufolo pure a un party all’ambasciata. Insomma, gran vita. Due mesi dopo, 21 giugno, sono a Lione per Iran-Usa, e i miei amici di Teheran vincono 2-1 una delle partite più corrette alle quali abbia mai assistito. Negli spogliatoi è una festa, rigorosamente analcolica. Mi rifaccio più tardi, alla Carnegie Hall. Ma questa è un’altra storia"
PACAEMBU, BRASILE. "Il vecchio Pacaembu è lo stadio municipale di San Paolo utilizzato dal Corinthians fino al 2014, quando il Mondiale gli regalò la nuova Arena. Ci sono stato nel 2009 per assistere all’incrocio fra un tramonto e un’alba: Ronaldo Fenomeno contro Neymar. Ovviamente ero lì per Ronie, al tratto finale della carriera. Leggendo al mattino sulla Folha che nel Santos c’era un ragazzetto “battezzato” perfino da Pelé, pensai alle solite esagerazioni. In realtà combinò poco, era un bambino: ma in due giocate fu palese la sua diversità. Il Pacaembu è nel cuore della megalopoli, dieci minuti a piedi dall’immensa Avenida Paulista. Notizia di questi giorni è il montaggio, sul suo prato, di due grandi tende mediche per fronteggiare l’emergenza in arrivo (anche se Bolsonaro non ne sembra consapevole). Bella cosa. Di quei giorni ricordo allenamenti-evento di Ronaldo al Parque Ecologico, sulla Rodovia Ayrton Senna ingolfata sempre e proprio paralizzata allora: il campo dà sulla strada e chiunque, passando, urla “c’è Ronaldo!” e si sente in diritto di fermarsi fregandosene di tutto. Sull’altro lato una ferrovia divide il centro sportivo dalla favela Pantanal. Il treno pende a sinistra, perché i passeggeri si sporgono per fotografare il Fenomeno. Tre bellezze sono lì per lanciare una batida: ogni passaggio di treno si tolgono il reggiseno. Pare “Colpo grosso”"
SANCHEZ PIZJUAN, SPAGNA. "Lo stadio Sanchez Pizjuan di Siviglia fu teatro nel 1987 del mio debutto internazionale. La partita era Spagna-Austria e il vicedirettore Mario Sconcerti suggerì a Cannavò di testare quel ragazzo triestino che da 3 anni passava le notti in tipografia. Per la Gazzetta il peso della gara, una qualificazione a Euro 88, era leggero. L’ideale, dunque, per far fare pratica a un giovane, perché allora il mestiere era così: dopo una robusta dose di redazione, maestri di quello spessore disegnavano il percorso di noi apprendisti. Una buona stella ha accompagnato la mia carriera. A Siviglia si manifestò nel fatto che al teatro Lope de Rega si stesse svolgendo il Mondiale Karpov-Kasparov. Sconcerti impazzì: mi ordinò di entrare senza accredito - non ricordo come, ma ci riuscii - e di scrivere una pagina. La sera dopo la Spagna vinse 2-0, gol di Sanchis e del mio amato Michel, e dopo aver scritto a macchina il pezzo e averlo dettato in un allegro caos, andai a spazzolarmi un piatto di prosciutto e una birra nel barrio di Santa Cruz. Ero il padrone del mondo, e volevo godermela"
ELBASAN, ALBANIA. "Il thread di oggi è dedicato a Edi Rama, il premier albanese che ieri (29 marzo ndr) ha ricordato significato e valore di due parole meravigliose: dignità e gratitudine. In omaggio a lui e alla sua gente racconto il viaggio dell’ottobre 2014 allo stadio di Elbasan. Era successo che l’Albania, allenata da Gianni De Biasi, avesse vinto a sorpresa in Portogallo la prima gara valida per Euro 2016. Andava quindi seguito il secondo match, casalingo, contro la Danimarca. Un altro risultato positivo e la strada per Parigi si sarebbe spianata. L’Albania non si era mai qualificata per un grande torneo, a Tirana si respirava un’euforia che rapiva. De Biasi mi aveva mandato al “suo” albergo, il Kotoni, il cui proprietario Admin possedeva le chiavi della città. Ma la gara si giocava a Elbasan, 40 km verso la Macedonia. La strada era chiusa al traffico, altrimenti l’intera Albania si sarebbe recata lì. Ovviamente Admin aveva un permesso, che combinato col mio accredito ci consentì il viaggio. La squadra di De Biasi andò in vantaggio, venne ripresa ma tenne l’1-1. Due anni dopo era a Parigi. Caro Edi Rama, lei è stato giocatore di basket e quindi appartiene al nostro mondo. Sappia che oggi siamo noi orgogliosi di far parte del suo. Rubo questa bella foto agli amici di "La Giornata Tipo": ritrae un pivot che non cerca il canestro, ma un compagno a cui passarla"
ENERGA GDANSK, POLONIA. "Nel profilo Wikipedia dello stadio Energa di Danzica c’è scritto che i giornalisti (non si specifica quali) l’hanno eletto più bello d’Europa. Not in my name, direi: carino, ma basta così. Se l’ho rimpicciolito tanto, però, il motivo non è estetico. Semplicemente, quando parli di Danzica non puoi non far vedere i cantieri navali. La pensavo così anche a Euro 2012, quando ci andai per seguire uno Spagna-Croazia pericoloso per l’Italia - si temeva un replay del biscotto Svezia-Danimarca - pur avendo in testa un’altra cosa. “Io voglio intervistare Lech Walesa!”. “Anch’io!”. Con Filippo Ricci ci siamo sempre intesi al volo, quella volta fummo anche più rapidi. Lui aveva conosciuto un’interprete che sapeva a chi rivolgersi. Breve trattativa sull’orario, ed eccoci qui: seduti di fronte alla Storia. Parlammo per un’ora di Solidarnosc, di Papa Wojtila, di Jaruzelski che era andato a trovare sul letto di morte, di Gorbaciov col quale ormai era amico. Del peso di essere l’uomo che aveva avviato con indicibile coraggio il processo storico che aveva cambiato faccia al mondo. Sono una pellaccia da stadio, eppure uscii da quel colloquio emozionato come un novizio. La sera Jesus Navas segnò il gol che con la Spagna qualificava l’Italia, e una volta spediti i pezzi Filippo e io andammo a bere una cosa lungo il canale. Ci hanno detto che sorridevamo molto"
STADIO NAZIONALE TOKYO, GIAPPONE. "Arrigo Sacchi compie oggi (1 aprile ndr) 74 anni e qualche giorno fa, parlando del Rose Bowl, abbiamo ricordato il giorno in cui sfiorò con l’Italia il tetto del mondo. Ma un’altra cima l’aveva già conquistata, col Milan. Stadio Nazionale di Tokyo, 17 dicembre 1989. In capo a una gara troppo tattica per essere divertente, Evani centrò l’angolo e tanti saluti al Nacional Medellín, la squadra di Escobar (Pablo, vedi Narcos stagioni 1-2). In porta c’era il mitico Higuita, in difesa il povero Escobar (Andrés), ucciso per un autogol a Usa 94. Il giovane cronista di allora ricorda con affetto l’ingenuità della sicurezza giapponese. Bastò dire “vado in campo per le interviste” per vedersi spalancare il cancello. Provateci adesso in qualsiasi stadio, e vedrete dove vi mandano. Ah, nella foto c’è un altro opinionista di Sky. Nell’89 il Giappone era una trasferta pazzesca. Primo sushi della vita, discoteca stilosissima a Roppongi, elettronica ad Akihabara, presi un walkman e una tv a 2 pollici. Il Milan vinse, gran festa alla dogana a Malpensa, nelle valigie passarono stereo da aprirci l’Hollywood. Esistono personaggi che segnano la carriera di un giornalista, ai quali inevitabilmente ci si lega al di là del mestiere. Voglio molto bene ad Arrigo, per quello che ha dato a me (fiducia, stima, disponibilità, amicizia) oltre che al nostro calcio. Un privilegio fargli gli auguri"
STADIO OLIMPICO DI ROMA, ITALIA. "Il sogno spezzato di Italia 90 nasce in uno dei luoghi di sport più belli del pianeta. Guardate cos’è lo stadio Olimpico col suo comprensorio, e immaginatelo una sera di inizio estate (9 giugno, a Roma basta e avanza) al giorno 2 del nostro Mondiale. La sera prima a San Siro, nella gara inaugurale, il Camerun ha fatto il colpo: 1-0 all’Argentina. Malgrado ciò, nessuno pensa che l’Austria, contro di noi, possa opporre troppa resistenza. E invece quelli, difesi dal portiere-formaggio Lindenberger, al 75’ stanno ancora 0-0. Vicini prova allora la rivelazione Totò Schillaci, aggregato in extremis. Carnevale esce inviando una benedizione al c.t., ma tre minuti dopo un cross di Vialli viene messo in porta proprio dal nuovo entrato. Olimpico impazzito. È l’atto di nascita delle notti magiche. Mi precipito nel garage dove, in uno spazio transennato, 40 giornalisti (25 italiani, 15 internazionali) vengono ammessi a quella che anni dopo verrà chiamata “zona mista”: in pratica, i giocatori escono dallo spogliatoio e, andando verso il pullman, si fanno intervistare. Cosa mai può andare storto? Beh, è un garage. Quando una cinquantina tra Ferrari e Porsche hanno acceso i motori, non si respira più: l’uscita a collo di bottiglia non aiuta, quando un vip scorge un giocatore scende ad abbracciarlo lasciando l’auto accesa. Non si respira più. Considerate noi 40: l’orario preme, angoscia per il pezzo (supertirature in arrivo, bisogna far presto!), Schillaci tarda a uscire, i tubi di scappamento ci stanno ammazzando. Ed ecco Luca Montezemolo, deus ex-machina del Mondiale, con la sua compagna di allora: Edwige Fenech. Inchioda la Thema-Ferrari, scende, abbraccia Totò in uscita in quel momento. Eh no, questo è un sopruso. La portiera aperta inquadra con generosità le grazie dell’attrice. Parte allora dai 40 reietti un suono disperato e struggente, dapprima un mugolio, poi un vero coro. “O-lé-lé / O-là-là / Faccela vedé / Faccela toccà” Intimamente lusingata, Edwige abbozza l’ombra di un sorriso. Montezemolo no. È furioso. “Ma siete mattiii?” Riguadagna l’auto, esce sgommando, Schillaci è finalmente a nostra disposizione. Nessuno dei 40 è mai diventato direttore"
GRAN STADE DE MARRAKECH, MAROCCO. "Dicembre è un mese molto dolce in Marocco, dunque esulto quando la Fifa organizza a Marrakech il Mondiale Club 2013. Gli iscritti obbligano al viaggio: Bayern di Guardiola, Guangzhou di Lippi e, nell’Atletico Mineiro, l’ultimo accettabile Ronaldinho. Le prime partite ad Agadir scremano il lotto e mi consentono di fare il ganassa con lo staff italo-cinese di Lippi. La sfida, raccolta e vinta, è fare il bagno con loro nell’oceano, a 15 gradi. In cambio interviste libere e un passaggio a Marrakech per semifinali e finali. Okay, molto di quei giorni è turismo. Niente hotel classico: dormo in un riad nella Medina, mangio tajine di agnello, me la spasso a Jamaa El Fna, la favolosa piazza del mercato. In campo quello tra Guardiola e Lippi è un incrocio suggestivo ma impari: il Bayern vince facile. Nell’altra semifinale Ronaldinho, che ha 33 anni ma è esausto come un vecchio, passeggia in un monolocale di dieci metri quadri. Gli chiedono solo di tirare una punizione e lui la mette nel sette, l’arte è immortale. Ma non basta ai brasiliani, battuti dal Raja Casablanca. Il Bayern vince anche la finale al Grand Stade. Interviste, pezzo, esco dallo stadio, in giro non c’è più nessuno. Il problema è che sono in mezzo al deserto. Undici chilometri a piedi, secondo quest’itinerario, e a scanso di equivoci li ho pure fatti in fretta. Marrakech Express"
SECONDA CATEGORIA, PROVINCIA DI TRIESTE."Per quanto lungo, e il mio lo è già stato parecchio, ogni viaggio comincia con un primo passo. Oggi mi sento tenero abbastanza per raccontarvi il mio: un paio d’anni d’apprendistato su e giù per i campi di seconda categoria della provincia di Trieste. Tre gare a week-end: sabato pomeriggio, domenica mattina, domenica pomeriggio. Sfreccio tra i campi con la mia 500, mi procuro i referti, guardo le partite, intervisto i protagonisti, corro a casa e scrivo: tabellino e 10 righe, prima per Trieste Sport e poi per Il Piccolo. Vorrei dirvi che fatico, ma la verità è che mi diverto da pazzi. E poi, i privilegi: c’è un tecnico che di mestiere fa il pescivendolo, quando passo da lui mi segnala con lo sguardo gli sgombri più freschi. E in modo magari un po’ grottesco, ma apprendo una lezione. Prima delle partite capita che arrivi un giocatore con fare intimidatorio. Diciamo che si chiama Tizio. “Ehi tu microbo, non mettermi sul giornale. Scrivi che ha giocato Caio”. All’inizio accetto, non sono così cuor di leone. Ma quando il capo mi sgama, arriva il cazziatone. “Quello si è dato malato venerdì al lavoro e ha intenzione di rifarlo lunedì. Per questo non vuole il nome sul giornale. Così, davanti agli spettatori tu fai una figura da scemo, perché hanno visto giocare Tizio. Ma quel che è peggio, fai fare la stessa figura al giornale”. La volta successiva ritiro i referti e avviso gli allenatori: chi gioca avrà il nome sul giornale, prendessero loro le decisioni sulla formazione che la verità non è più negoziabile. Qualcuno bofonchia rabbioso, ma non registro reazioni violente. È andata. Mi sento Bob Woodward"
BRANN STADION, NORVEGIA. "Il debutto a Grande Inverno arriva a settembre ’89: nel primo turno della Coppa Coppe che avrebbe vinto, la Sampdoria viene sorteggiata con i norvegesi del Brann Bergen. Maps ci dice che stanno rifacendo lo stadio: all’epoca era un campo di provincia. Il riferimento al 'Trono di Spade' non è campato in aria, perché alla fine dei giochi è proprio Bran(n) Stark a ereditare il comando dell’impero. Il Brann di Bergen è meno pretenzioso: perde 2-0, gol di Vialli e Mancini, e ciò che resta in memoria è soprattutto una gran gita. Avrete ormai capito che, nei limiti consentiti, ho sempre cercato di sfruttare le trasferte in senso ampio ("chi sa solo di calcio..." e così via). Bergen è piazzata su quello che è considerato il fiordo più bello di Norvegia. Ed ecco il vostro cronista preferito in azione. Da sempliciotto venuto dalla provincia, e dunque ignaro di 'raffinatezze' come il tifo contro, ho sempre sperato che le squadre italiane che seguivo in Europa vincessero. Premesso questo, confesso che la Samp di Vialli e Mancini occupa un posto speciale nei miei ricordi. Mettendo assieme molti dei migliori giovani italiani, e dando loro l’astuto Boskov come guida, Mantovani aveva creato una squadra che rappresentava concetti assoluti: il talento, l’ambizione, la classe, la freschezza, la spavalderia. Impossibile non amarla: mi sentivo come lei"
ESTADIO HERNANDO SILES DI LA PAZ, BOLIVIA. "La Paz non è uno scherzo. La capitale della Bolivia digrada dai 4100 metri dell’aeroporto (El Alto non a caso) ai 3200 della zona residenziale. È l’unico posto dove i ricchi vivono in basso: c’è l’ossigeno. In mezzo, a 3600, lo stadio Hernando Siles. Ci capito nell’agosto del 1993, l’estate passata in Sudamerica a seguire le qualificazioni a Usa 94. Arrivo a La Paz dal Perù attraversando in barca il lago Titicaca. Indimenticabile, ma devo dire che a 35 anni l’altura fu un fattore. Chissà oggi. La partita è Bolivia-Uruguay. In albergo mi danno da bere il mate di coca, un tè che stabilizza il ritmo cardiaco (curioso, visto l’altro uso della stessa foglia). Esco per una passeggiata, ma dopo 300 metri le gambe friggono. Mi siedo su una panchina, davanti a un cinema. Vedo a La Paz 'Parque Jurasico'. La tribuna stampa, in capo a una scalinata, è una conquista. Un ragazzone che parla francese mi porge il mate. Gran tipo: Francis Huertas, scrive per l’Equipe. Spirito libero, non da redazione, contrattino e via, su e giù per il continente. Nel 2002 un male se l’è portato via. In casa la Bolivia vince quasi sempre negli ultimi 20 minuti, quando gli avversari boccheggiano. Finisce 3-1: a me fa impazzire El Diablo Etcheverry, avrei giurato su una carriera migliore. Per l’Uruguay segna Francescoli. Per la prima e unica volta, la Bolivia va al Mondiale. Ah, dimenticavo: in quei giorni a La Paz c’è pure Fidel Castro. Ascolto il suo discorso, nel quale scalda la folla parlando dei 'polmoni patriottici dei calciatori'. Chissà se quella notte andò a trovarlo il fantasma di Che Guevara, che finì i suoi giorni proprio in Bolivia"
CENTRAL DYNAMO STADIUM, MOSCA. "Mosca è una meta fissa. La nazionale gioca sempre lì, i suoi 4 club (Cska, Lokomotiv, Spartak, Dinamo) hanno un’unica rivale per la Champions (lo Zenit), ci sarò stato quindici volte. Una non me la scordo: ottobre 2001, Lokomotiv-Roma, stadio Dinamo. La Vtb Arena di oggi, che dopo il Mondiale sembra un moon boot, all’epoca era un vetusto stadio sovietico. Siccome la Lokomotiv stava costruendo il suo impianto - sarebbe stato il primo moderno della capitale - lo prese in prestito per affrontare la Roma campione d’Italia. Il mattino di gara è lo spazio turismo. Entro al Cremlino per vedere l’Armeria. Trovo un uomo in tuta Roma nel salone delle carrozze. Mi schiarisco la gola. Fabio Capello si volta e indica una berlina di gala dell’imperatrice Caterina: “Ci vengo ogni volta. Sono meravigliose”. Adesso ci vedete discutere su Sky nelle serate di Champions, e basta questo per descrivere il mio privilegio. Ma tra noi c’è sempre stato un feeling, e io ne approfittavo: quand’era c.t. della Russia potevo arrivare a qualsiasi ora, lui mi aspettava per l’intervista. Grande! Ho divagato. È soltanto ottobre, ma fa già un freddo da Generale Inverno. Guardo la partita col mio amico Massimo Cecchini, la Roma controlla ma stenta a colpire, siamo tutti lì appesi al gol che non arriva... e non arriva neanche la telefonata che sto tanto aspettando, maledizione. Beh, succede quasi in contemporanea. Squilla il cellulare, all’altro capo c’è mia moglie. Ascolto le sue parole, le mando un bacio, mi giro verso Massimo (che sapeva) e colmo di felicità gli dico “è maschio”. A voce un po’ alta, perché tutti i colleghi si girano sorridenti. E cominciano a ripeterselo l’un l’altro - “è maschio!”, “è maschio!” - e in quel momento Cafu indovina un destro con deviazione che scavalca il portiere russo e fissa l’1-0. E siamo tutti a urlare e a darci il cinque, “è gol”, “è maschio”, e chi se lo scorda un momento così"
FORTRESS STADIUM DI LAHORE, PAKISTAN. "La Fortezza di Lahore è forse il meno nobile fra gli stadi che ho visitato. Non ci vado per una partita. Nel 1998 fa da quartier generale a una spedizione importante: dieci giornali europei in Pakistan, sotto l’egida dell’Agenzia del Lavoro dell’Onu. Tema caldo del periodo: i bambini che in Pakistan cuciono palloni per le multinazionali del materiale sportivo. Le Nazioni Unite se ne sono occupate e vogliono mostrare i primi risultati ai media occidentali. Per l’Italia è invitata Gazzetta, per la Gazzetta ci sono io. Lahore non è una passeggiata di salute. Una mattina io e Angels Pinol del Pais incappiamo nell’Ashura, l’autoflagellazione degli sciiti. Appena il tempo di toglierci di torno e assistiamo da una nicchia al passaggio di cento penitenti che si massacrano il petto. Tanta paura. Ma il cuore di tenebra del lavoro minorile è a Sialkot, cento chilometri a nord, nel Kashmir pakistano. Un funzionario untuoso racconta condizioni idilliache. Ci dividiamo: il tedesco e l’olandese valutano grafici e statistiche, noi latini spingiamo per ispezionare i villaggi. Ne usciamo provati. Le piccole dita dei bambini cuciono esagoni di cuoio a velocità impressionante. La direttrice dell’Agenzia ci ricorda le regole d’ingaggio: il lavoro minorile che combattono è quello che impedisce ai bimbi di andare a scuola. E questi hanno la loro aula. Non è tutto. Dopo mezz’ora arriva un indemoniato che, agitando un bastone, vorrebbe cacciarci. L’interprete spiega la situazione: è il padre di due bimbi, sostiene che siamo pagati dalla Cina per sottrarre loro il lavoro con la scusa umanitaria e portarlo al di là del confine. Sull’aereo ci confrontiamo. L’Onu ha ragione, togliere il lavoro affamerebbe le famiglie. Almeno garantisce l’istruzione. Sarà dura spiegarlo in Europa. Mi turba un particolare. Ho chiesto ai bimbi se tifano per Ronaldo o Zidane, gli assi che “firmeranno” i palloni. Mai sentiti"
OLD TRAFFORD DI MANCHESTER, INGHILTERRA. "Uso sempre il treno per andare a Old Trafford. Lo prendo a Deansgate almeno due ore prima del match perché mi piace respirare l’attesa, lo stadio che inizia a riempirsi, una birra coi colleghi inglesi, il riscaldamento, la quiete prima della tempesta Il 23 ottobre 2011 sono a Manchester per il derby col mio amico Stefano Boldrini. Alla vigilia sorge un problema: contrariamente al solito, lo United dà alla Gazzetta un solo accredito. Troppo alta la richiesta per la gara col City, è lo scontro tra prima e seconda. Urge un’idea. Con Roberto Mancini siamo amici dalla prima intervista. Era l’87: io giovane cronista, lui giovane campione. “Ho un biglietto nel settore riservato ai nostri tifosi, Paolo. Ci vai con Filippo e Andrea”. I suoi figli. La gara è di pomeriggio, si può scrivere dopo in hotel. Great! Mi diverto da pazzi. È il giorno giusto: il City vince a Old Trafford 6-1, cinque gol li segna nella porta sotto di me, partecipo con entusiasmo alla “poznan”, l’esultanza a spalle girate dei tifosi citizen (mutuata dai polacchi del Lech). Cercatemi nella foto, magari ci sono. Mario Balotelli gioca una gara pazzesca. Segna i primi due gol e forza il rosso a Evans. Siccome il giorno prima aveva dato fuoco a casa sua, e i giornali se n’erano comprensibilmente occupati, dopo l’1-0 espone la famosa maglietta “Why always me?”. Già Mario, chissà perché. Finito di scrivere, telefono al Mancio. Siamo in due... “Venite”. Tre quarti d’ora nella campagna inglese, e io e Stefano siamo in villa a far festa con Roberto, Lombardo, Salsano e il mitico massaggiatore Viganò. Praticamente la pizzeria di Bogliasco traslata nello Yorkshire. Siccome le serata si protrae, Stefano e io andiamo dal tassista. Venga dentro, c’è un piatto di pasta... “Oh no Sir, I’m United fan!”. Brutta stagione per lui: al ritorno rivince il City e in tribuna stampa canto a squarciagola Wonderwall. Sotto di me, ehm ehm, c’è Noel Gallagher"
STADIO METROPOLITANO DI BARRANQUILLA, COLOMBIA. "Un Ferragosto caliente è quello di Barranquilla nel 1993. Allo stadio Metropolitano la Colombia batte l’Argentina 2-1, gol di Igor Valenciano e di Adolfo “El Tren” Valencia, uno sciagurato cui il Trap al Bayern disse “tu pierna no habla sudamericano”. Ricordo la gara per il successivo ingorgo: un girone dantesco, migliaia di macchine ammassate, ore senza muoversi e altoparlanti che mandavano a nastro la radiocronaca dei due gol, scatenando ogni volta il rumoroso entusiasmo dei ragazzi che viaggiavano sui tetti dei pullman. Ma la storia colombiana è un’altra. Quell’estate la mia base era Bogotà, le partite si giocavano domenica e in settimana dovevo trovare delle storie. Una delle prime fu un viaggio a Tuluà, sulla Carretera Panamericana, città natale di Faustino Asprilla, all’epoca del Parma. Un mattino prendo l’aereo da Bogotà a Cali. Mi aspetta Raul, factotum del club dove Asprilla aveva iniziato. Due ore di auto e siamo allo zuccherificio di Tuluá dove incontro il padre di Tino. Non ci deve più lavorare, ma gli amici sono lì e ogni giorno va a pranzare con loro. Vedo il primo campetto, la vecchia casa, il ranch, i cavalli. Saluto a metà pomeriggio, ho il volo di rientro alle 21, sono comodo. Giunti a Cali alle 19, però, Raul non devia per l’aeroporto: “Il signor Sanchez, proprietario del club e dello zuccherificio, vuole conoscerla”. Quartiere Jardin, il più chic. Condominio di lusso, ultimo piano e attico. Guardie armate nell’atrio. Zuccherificio? Mah. Sanchez è un gioviale ragazzone. “Che onore averla qui”. Mi porta in una sala con gli ultimi due anni di Gazzetta. “La faccio venire ogni giorno da Miami”. Il tempo stringe, ma non voglio sembrare scortese. Lui mi legge nel pensiero: “Lasci stare l’aereo”. La terrazza domina Cali, paesaggio mozzafiato. Amici e amiche di Sanchez bevono champagne. C’è la moglie di Tino, donna coi suoi argomenti. “La cena verrà servita in veranda”. Inutile pensare al volo, mi farò indicare un hotel e tornerò a Bogotà domattina. La serata è dolce, si parla di calcio, il panorama è stupendo, lo champagne leggero. Noto appena che uno sgherro di Sanchez gli ha fatto un cenno. Lui si china al mio orecchio: “Si è fatto tardi”. Sono stralunato dall’incredulità (e un po’ dallo champagne, okay). Volata all’aeroporto. Mi aspetta uno steward con la carta d’imbarco. Raggiungo il gate alle 23 mentre l’interfono dice “imbarchiamo il volo per Bogotà scusandoci per il ritardo, dovuto a un problema tecnico”. La finezza è stata lasciare la gente al gate, se fossi entrato in un aereo carico da due ore mi avrebbero impiccato. Devo essere rosso come un peperone, ma nessuno mi sgama. In volo penso al potere assoluto di Sanchez. Il nome è inventato, la storia è vera. Zuccherificio? Mah"
STADIO KOSEVO DI SARAJEVO, BOSNIA-ERZEGOVINA. "Il progetto Sarajevo necessitava di fortuna. Un passaggio in auto, un varco per penetrare il cerchio dell’assedio, un cessate-il-fuoco attivo per arrivare in città e allo stadio Kosevo. Non sono un inviato di guerra, non avrei saputo gestire sorprese. L’idea era nata per il magazine della Gazza, quello che ora si chiama SportWeek: un reportage da una città cara allo sport - nell’84 vi si erano svolte le Olimpiadi invernali - che da tre anni era chiusa, assediata, bombardata, vilipesa. Guerre balcaniche, capitolo Bosnia. La sera dell’8 ottobre 1995 l’Italia pareggia a Spalato un duro match con la Croazia. Interviste, solito pezzo scritto di furia, dai che il pullman parte per l’aeroporto. I colleghi che sanno mi salutano con trasporto. Loro vanno, io resto. Ho un appuntamento il mattino dopo. Nomi. Andrea Angeli, funzionario dell’Unprofor (Onu), mi ha procurato il passaggio: vado col dottor Mariani dell’ospedale pediatrico di Sarajevo. Con me viaggia Giovanni Montenero, fotografo triestino. L’interprete che troveremo lì, Irma, è la figlia di un amico di Tanjevic. Lungo viaggio, poche parole. Al tramonto siamo alla base del monte Igman, la mulattiera d’accesso. C’è un campo della Forza di reazione rapida Nato. Inglesi. Dicono che si passa. Mezz’ora a salire, mezz’ora a scendere. A fari spenti. Attraversiamo l’aeroporto e siamo in città. In settimana la tregua tiene, prologo agli accordi di pace di Dayton. Giro tutta Sarajevo, a partire dal Kosevo dove uno straccio di squadra ha ripreso ad allenarsi. Attorno allo stadio, un cimitero immenso è dominato dalla statua di un leone. Sembra proteggerlo. È commovente. Mi hanno dato un giubbetto antiproiettile, ma non lo metto perché del nostro gruppo (Irma, Giovanni e l’autista) sono l’unico, e mi manca il coraggio di usarlo. Sarebbe come dire che la mia vita vale più della loro. Basta la sahariana. C’è un momento nel quale provo la paura profonda, totale, paralizzante. È quando dobbiamo andare al palasport di Skenderija, e per farlo dobbiamo attraversare il “ponte dei cecchini”. Trecento metri allo scoperto, è stato uno dei luoghi più mortali di Sarajevo. “In questi giorni non sparano, andiamo” dice Irma, e si mette a correre. La seguo subito. Come quando da ragazzo hai paura di tuffarti dall’alto, e allora ti butti perché se ci pensassi non lo faresti più. Oggi il palasport è intitolato al grande Mirza Delibasic, riposi in pace."
STADIO NAZIONALE DI PECHINO, CINA. "Il centro perfetto del mondo è un fenomeno che si compie ogni 4 anni, e per non ferirvi la Pasqua scordate che stavolta saranno 5. Il centro perfetto del mondo è lo stadio della cerimonia d’apertura delle Olimpiadi. Nel 2008 il Bird’s Nest di Pechino. Arrivo trafelato da Shenyang, dove ho già assistito a un paio di gare del torneo di calcio (unico sport autorizzato all’anticipo, il solito raccomandato). La cerimonia è imponente, come sempre quando un Paese ne approfitta per presentarsi al mondo. Signori, questa è la Cina. Pechino è l’Olimpiade in cui Kobe Bryant e LeBron James giocano assieme, Usain Bolt vince tre gare con tre primati del mondo, Federica Pellegrini porta a casa la sua medaglia d’oro. Ma le storie che mi rapiscono sono altre due: il dramma di Liu Xiang e l’estasi di Leo Messi. Liu è l’atleta più amato, l’orgoglio del Paese da quando, ad Atene, aveva vinto i 110 hs dimostrando che i cinesi non giocano solo a ping-pong. È l’oro più atteso, quello che definirà l’ascesa anche atletica di una nuova superpotenza. Ma Liu sta male. È stirato, dannazione. Va in pista lo stesso per la batteria, alla disperata ricerca di un miracolo. Non avviene. Allo sparo scatta, ma il secondo passo è già incerto, il terzo un’oscena zoppia. Si ferma. China il capo. Accanto a me una giornalista cinese spegne il computer e comincia a piangere. Piangono tutti alla conferenza stampa. L’allenatore si profonde in mille scuse verso il popolo cinese. Verrebbe da consolarlo - l’importante è partecipare - ma sarebbe una presa in giro, Liu è uno che corre per vincere. La verità è che non so nulla del loro senso dell’onore. Conosco bene quello di Leo Messi, invece, e so che dopo le sberle mondiali lui con la mente è sempre tornato qui, al Bird’s Nest, a cullarsi dentro l’unico successo con la Seleccion. In finale con la Nigeria, marcatissimo, spedisce in gol un giovane filiforme: Angel Di Maria. Tra i primi a festeggiarlo, un Diego Maradona in forma smagliante. Da lì partirà il tam-tam che in breve lo porterà sulla panchina albiceleste per il Mondiale 2010, ma questa è una storia che vi ho già raccontato. Meglio usare gli ultimi spazi per augurarvi buona Pasqua"
STADIO MARCANTONIO BENTEGODI DI VERONA, ITALIA. "Sono molti i motivi che rendono Verona un luogo speciale per me, uno è legato a questa serie: il 7 maggio 1989, dopo cinque anni di attesa, la Gazzetta mi mandò per la prima volta a “fare la partita”. Stadio Bentegodi, Verona-Pisa 1-0, gol di Pacione. Nel gergo dei giornali sportivi “fare la partita” vuol dire scrivere cronaca e pagelle. No interviste, no colore: sei il responsabile tecnico, decidi chi ha giocato meglio. Ci avevo messo 5 anni non (solo) perché ero scarso, ma perché una partita di A per la Gazza era sacrale. Una grande soddisfazione, e aveva un senso che arrivasse a Verona perché sette anni prima, nella primavera dell’82, il Piccolo - dove lavoravo in Cronaca - mi ci aveva mandato per seguire il processo ai brigatisti rossi che avevano sequestrato il generale americano Dozier. Era stato il mio primo servizio importante. Per una settimana avevo lavorato al fianco di grandi giornalisti. Trattato un po’ da mascotte all’inizio, ma con simpatia e disponibilità. Un nome? Jo Marrazzo, reporter della Rai specializzato in terrorismo e camorra. Una leggenda. Ma con uno di loro legai in modo particolare: Beppe Zaccaria della Stampa. Un uomo vitale come nella mia testa potevano essere solo i giornalisti d’élite. Assieme passammo un bigliettino con 4 domande nella gabbia di Savasta, ottenendo risposte che gli altri ci invidiarono. Rimasi in contatto con Beppe. Ehm, parlò di me a un amico che aveva in commissione per l’esame da giornalista... Ricambiai aiutandolo a seguire il caso-Calvi, il banchiere morto a Londra dopo essere passato per Trieste. E ovviamente lo rividi a Sarajevo nei giorni già narrati. Ieri sera ho letto in un tweet di Massimo Nava che Beppe è mancato, a Belgrado dove viveva. Era da un po’ che non stava bene, e ieri è successo. Fanculo, ho pensato, e mi sono soffiato il naso. Questo thread è dedicato alla memoria di un grande giornalista, e di una bella persona"
STADION AVANHARD DI PRIPYAT, UCRAINA. "In questo scatto c’è lo stadio di oggi, solo un po’ mimetizzato. Trovato? Sì, è quello in alto al centro: si vede la tribuna e si intuiscono le curve della pista di atletica. Il campo no, adesso è un boschetto. Pripyat, Ucraina: a tre km da Chernobyl. Ci vado nel marzo 2011 assieme a un gran fotografo, Alberto Giuliani. Il pretesto sono i 25 anni dell’incidente nucleare più grave della storia, la realtà è che quel luogo, la ghost town evacuata (tardi) dopo la fusione del reattore, esercita su di me una potente suggestione. Il biglietto per la zona di esclusione costa 500 dollari e prevede una guida militare dotata di contatore geiger. Lo raggiungiamo alla guarnigione che delimita l’accesso alla zona proibita. Breve memorandum sulle cose da non fare - allontanarsi da lui, in sostanza - e si va. Il primo stop è a Chernobyl. I famosi fumaioli emergono dal sarcofago di cemento nel quale è stato sepolto il reattore; cinque anni dopo, nel 2016, l’hanno rifatto. Da lì, tremila metri di strada dritta e sconnessa - Lenin Avenue sulla cartina - e arrivi nel centro di Pripyat. Ci sono posti dove puoi andare: lo stadio, la piscina, la scuola, il supermercato. Ci sono posti dove non puoi: l’ospedale, il cimitero (hanno sepolto scorie radioattive). Lo stadio Avanhard è un boschetto ordinato, delimitato dal cemento della pista. Ci giocava lo Stroitel. L’albergo? 'A vostro rischio'. Non di radiazioni, ma di crolli. Siamo in pieno disgelo, dai tetti scendono incessanti rivoli d’acqua che scavano nelle strutture finché un giorno, primavera dopo primavera, ne hanno ragione. Saliamo i sei piani con grande circospezione. Beh, il panorama valeva il rischio. Dal tetto dell’edificio si vede il sarcofago lontano, la ruota del luna park, la natura rigogliosa che sta vincendo la battaglia sul cemento e presto ricoprirà l’intera città morta. Resto mezz’ora lassù, inebetito dal fascino dell’assurdo. Fuori in due ore, era l’accordo. Rispettato, e speriamo bene. 'Tranquilli, ci sono vecchi che ci vivono'. Parecchi anziani sono tornati, tollerati in barba ai divieti: i militari li riforniscono, una volta al mese un medico li visita. Fantasmi. Anche se radioattiva, è casa loro"
JOHAN CRUIJFF ARENA DI AMSTERDAM, OLANDA. "Ve l’ho menata per anni con la supremazia del gioco, ma sarei un bugiardo se negassi di dovere ai giocatori, o meglio agli uomini in campo quel giorno, la gioia più esaltante e selvaggia che ho provato in uno stadio. Amsterdam Arena, 29 giugno 2000. L’Italia di Zoff ha giocato fin lì un ottimo Europeo, ma tutti noi cronisti al seguito temiamo che la semifinale con l’Olanda possa essere il capolinea. Nei quarti Kluivert e compagni hanno segnato sei gol alla Jugoslavia. Sono forti, veloci, letali e giocano nel loro stadio. Il primo tempo vive su tre momenti. Un sonoro palo di Bergkamp, il rosso a Zambrotta e il generoso rigore concesso agli olandesi. Merda. Okay ho capito, penso che domani sarò a Milano: a fine anno mi risposo, stiamo ristrutturando casa, magari aiuto Elena a scegliere i mobili. Frank De Boer angola verso destra, ma non abbastanza. Toldo è un’anima lunga, e dopo la deviazione pure felice: comincia a ridere, non smetterà più. Gli olandesi sono smarriti. Anni dopo Kluivert mi racconterà che passarono l’intervallo a urlarsi l’un l’altro di stare calmi. Il secondo rigore è netto, ma stavolta non penso al ritorno a casa. C’è qualcosa nell’aria, oltre alle zaffate di marijuana che salgono dalla tribuna sottostante. È paura, ed è olandese. Kluivert spiazza Toldo, ma centra il palo e Maldini libera. Vinceremo. È evidente a tutti. Ricordo che con Luca Calamai ci rivolgiamo allora ai colleghi olandesi, non simpaticissimi, gridando 'arrendetevi, e avrete salva la vita'. Una battuta, ma la masticano male. Forse me la sto inventando qui ma mi pare che uno risponda 'non veniteci mai a chiedere gli Eurobond'. Rigori. Di Biagio ha sbagliato l’ultimo nel ‘98 a Parigi, e quando Zoff lo guarda gli dice solo 'lo tiro, ma che sia il primo'. Palla nel sette. Tocca a De Boer, che certo non sbaglierà ancora. Ah, no. Toldo ormai ride come un bimbo che ha colto la frutta perché è il più alto. Pessottino trasforma il 2-0. Parte allora Jaap Stam, che aveva quell’andatura un po’ robotica, e giuro - stavolta è vero - che a un giornalista olandese particolarmente petulante faccio segno con la mano che tirerà alto. E Stam tira alto! Mi riesce qualsiasi previsione! Il cucchiaio di Totti appartiene alla storia d’Italia. Propongo a Chiara Alessi una cross fra le nostre serie per trovare un oggetto di design che lo ricordi. Se volete saperne di più, Totti ha scritto un gran libro che trovate nelle librerie appena riaperte. Ve lo consiglio. Kluivert segna di rabbia, l’unico rigore su 6. Maldini sbaglia, ma Toldo para anche Bosvelt e la chiude. Corsa, abbracci, lacrime. Che avventura! Citando Gino&Michele, Saigon era Disneyland in confronto. Eppure ne usciamo a riveder le stelle (a forza di rigori s’era fatta notte)"
STADIO INTERNAZIONALE KHALIFA DI DOHA, QATAR. "Stadio Khalifa, Doha. Il quarto uomo espone il cartello per la sostituzione. Tadanari Lee saltella a ritmo frenetico, impaziente. Parla a se stesso in tono concitato. Alberto Zaccheroni chiede all’interprete che sta dicendo. “Tra poco sarai un eroe”. Una settimana prima (come nei film, eh?). Il giovane Giappone di Zac segna al 90’ il gol del 3-2 al Qatar e vola in semifinale di coppa d’Asia 2011. Era la discriminante fra partire o no. Mi imbarco in tempo per vedere la semifinale contro la Sud Corea, la classica dell’Asia. Sono in debito con Zac. Nella primavera del 2004 Moratti decise di sostituirlo a fine stagione con Mancini. Io ne ero al corrente, e scrissi un paio di pezzi sul tema. Il club smentì, non poteva far altro, ma Zac sapeva che io sapevo. Nel suo modo civile, un po’ se la prese. A Doha vado all’Intercontinental, l’hotel del Giappone. Incrocio subito Zac. Disponibile, misurato, freddo: racconta un po’ di cose per farmi mandare subito un pezzo, mi presenta al suo staff, mi indica i giocatori. Nagatomo e Honda giocheranno a San Siro, e lui me lo predice. Il giorno dopo i giap vincono ai rigori una semifinale drammatica. Nel 2002 ero a Daejeon, e quindi non piangerò mai per una sconfitta dei sudcoreani. Stavolta la soddisfazione è doppia perché Zac comincia a sciogliersi. Intanto, vengo invitato a visitare il Centro Aspire. È la culla della candidatura mondiale del Qatar. Un’accademia ad alto rendimento tirata su con mezzi sbalorditivi, il paradiso terrestre dello sport praticato. Fra chi la gestisce c’è un italiano: Valter Di Salvo, ex preparatore di Real Madrid, Manchester United e Lazio. Valter mi porta in giro a conoscere Doha, un immenso cantiere che ricorda SimCity, mentre il Giappone prepara la finale con l’Australia. Zac è comunque felice di avere un giornalista italiano sul posto, perché se arriva la gloria ci vuole qualcuno che la racconti. La finale va ai supplementari. Al 98’ entra Lee, dieci minuti dopo l’autoprofezia si compie: cross mancino di Nagatomo, girata al volo, il Giappone è campione, Zaccheroni-san verrà ricevuto dall’imperatore. A fine gara ci abbracciamo. Ho la sensazione di aver saldato un debito"
ESTADIO HUGO LUMBRERAS, ARGENTINA. "Lo stadio di oggi è un puro pretesto, si chiama “Hugo Lumbreras” e ci sono solo passato accanto, molto tempo fa. È un pretesto perché la malinconia per la morte di Luis Sepulveda non se ne va e allora tanto vale parlarvi del mondo alla fine del mondo. Sono stato in molti posti strani ma Ushuaia li batte tutti perché è proprio l’ultimo, in fondo al Sudamerica, dove la Patagonia è già diventata Terra del Fuoco. Il secondo romanzo di Luis è ambientato lì, e racconta di un picaresco viaggio di Greenpeace per salvare le balene. Io ci sono andato nel ‘92, a rimettermi da un divorzio, assieme ad altre due anime inquiete: Sebastiano Vernazza, che ogni giorno combatte qui per l’onore della vecchia Gazza, e Carlo Annese, che ha scoperto i podcast quando io usavo i joystick. Qui siamo al ghiacciaio Perito Moreno. All’epoca si andava in Patagonia per Chatwin, il dandy inglese specialista in letteratura di viaggi, ed era pura estetica decadente. Dal ‘95, l’anno di “Patagonia Express”, l’esule cileno Sepulveda - esule da Pinochet, e quindi come non amarlo? - si annesse l’intero cono Sur. Viaggio iniziatico, quello dei tre gazzettari. Impazziti per la ragazza più bella mai vista - Lara, una guida andina del Calafate - esausti per la marcia fino ai piedi del Cerro Torre, felici come bimbi al Centenario di Montevideo, ma quello ve lo racconto un’altra volta. Luis Sepulveda era uno scrittore ricco di poesia e a suo agio con l’amore, ma anche un uomo estremamente politico, infastidito dalle ingiustizie del mondo. Un Corto Maltese, sia pure col vizio della buona tavola. È un identikit che anch’io avrei voluto rispecchiare. Viviamo tempi nei quali l’idealista è un ingenuo, il generoso un sovversivo, il colto è uno snob e chi studia lo fa per fregare gli altri. Sepulveda aveva queste qualità e nessuno di quei difetti. E niente, volevo dirvelo per aprire un po’ le finestre. Domani si torna allo stadio"
BORIS PAICHADZE DI TBILISI, GEORGIA. "Ci sono città bellissime delle quali nessuno sa nulla perché sono fuori dal giro. Tbilisi, per esempio. Un fiume ad attraversarla, il Caucaso innevato all’orizzonte, in centro lo stadio Boris Paichadze, che ai tempi dell’Urss era la casa della Dinamo. Ci capito due volte a distanza di quattro anni, al seguito dell’Italia. Nel 1997 finisce 0-0, nel 2001 Delvecchio e Totti fissano il 2-1. Più delle gare ricordo il clima: speranza e fervore nel ‘97, povertà e disillusione dopo. E il monito alla reception: occhio ai sequestri. Levan Kaladze è stato rapito dieci giorni prima della gara. Il fratello Kakha, colonna del Milan, scoppia in lacrime durante l’esecuzione degli inni. Quando le squadre si incrociano per il saluto Paolo Maldini, capitano dell’Italia e del Milan, lo abbraccia a lungo. Si gioca perché il presidente Eduard Shevardnadze, l’elegante ministro degli esteri dell’ultima Urss di Gorbaciov, ha assicurato a Kakha il suo impegno per trovare il fratello. È venuto allo stadio. Ne ha passate anche lui: è scampato allo scoppio di un’autobomba nel cortile. In quel momento la Georgia è allo stremo. Dalla tribuna stampa, nel punto più alto dello stadio, vedo tutte le luci della città spegnersi. Buio pesto, per consentire l’illuminazione necessaria alla partita. Levan non tornerà mai a casa, nel 2006 verranno trovati i suoi resti. Kakha non era intelligente soltanto come difensore. Oggi è il sindaco di Tbilisi, e la capitale sembra non essere mai stata così bene. Un giorno vorrei nuotare nello spicchio georgiano del Mar Nero: il mio amato Kapuscinski ha scritto che è molto meglio della Costa Azzurra. Infine, un pensiero al grande David Kipiani, miglior giocatore georgiano della storia e c.t. entrambe le volte. La prima lo intervistai, e la sua dignità di stella di un calcio povero mi colpì molto. Morì in un incidente stradale. Poi, è tornato per sempre accanto al suo stadio"
SOLDIER FIELD DI CHICAGO, STATI UNITI. "Visto che oggi inizia in America (domani in Italia) la messa in onda di “The Last Dance” su Netflix, questa è la storia dell’estate in cui ho visto Michael Jordan due volte dal vivo. 6 giugno ‘92: l’Italia chiude la Us Cup al Soldier Field di Chicago. In città ci sono i Portland Trail Blazers per la finale Nba contro i Bulls. Nel ‘92 la Nba non ha ancora la diffusione di oggi, ma ho ugualmente chiara la percezione di quale trauma sarebbe trovarmi a Chicago senza assistere a gara 2. Telefono in redazione a Luca Chiabotti. Lui mi dà il numero di Barbara, un’incantevole ragazza di Varese che lavora nell’ufficio del commissioner David Stern. Non la ringrazierò mai abbastanza: due ore dopo il mio bell’accredito attende al botteghino del Chicago Stadium. Ah, i Bulls hanno vinto gara 1. Con l’accredito al collo vai letteralmente dove vuoi. Inizio dal garage, dove assisto all’arrivo di Jordan che consegna le chiavi del macchinone, scherza con tutti e procede verso gli spogliatoi. Lì c’è Phil Jackson che sta spiegando alla lavagna alcuni schemi ai cronisti. Fingo di capire qualcosa per darmi un tono, evito domande (altri le fanno, e Phil risponde!). In sala medica Scottie Pippen, mentre un masseur lo sistema, sta dando le ultime ad altri due importuni col taccuino. Ho capito: sono morto, e questo è il paradiso dei giornalisti. La partita è uno show: Jordan ne mette 39, ma vince Portland grazie alle giocate di un altro fuoriclasse, Clyde Drexler (okay, non lo conoscevo: sparate pure). Dieci minuti dopo la fine gli spogliatoi si aprono e i giornalisti sciamano dentro. Sulla luna sarei meno sbalordito. 52 giorni dopo sono a Badalona, per il torneo olimpico di basket. Nell’indimenticabile Dream Team ‘92 giostrano assieme Jordan, Pippen e Draxler, e la Croazia di Petrovic e Kukoc può essere fiera di prenderne solo 33. Dopo la gara li intervisto tutti: ormai sono vecchi amici. Ah, a Chicago l’Italia aveva poi pareggiato 1-1 con gli Usa. I Bulls avevano vinto la serie 4-2. Dopo una breve convivenza con lo United Center il vecchio Stadium è stato abbattuto. Barbara ha sposato Bryan Colangelo, top manager Nba. Il Dream Team vinse l’oro a Barcellona"
LA BOMBONERA DI BUENOS AIRES, ARGENTINA. "L’eccitazione della prima volta a Buenos Aires, 1990, non si scorda. Ero di passaggio per andare ad Asuncion, a studiare gli avversari del Milan a Tokyo, ma sapevo che in quei tre giorni ci sarebbe stata una partita alla Bombonera, e tanto mi bastava. La gara fra Boca Juniors e Deportivo Mandiyù doveva servirmi a vedere Diego Latorre, fantasista in procinto di trasferirsi alla Fiorentina. Ma il suo procuratore, Settimio Aloisio, scortandomi alla Bombonera mi suggerì di osservare anche il centravanti, tale Gabriel Batistuta. Aloisio era una vecchia volpe del mercato internazionale e io un tenero cronista appena sceso dal suo primo volo intercontinentale. Impensabile che non cercasse di abbindolarmi: Bati giocò pure male, e alla fine gli dissi che non era certo me che poteva fregare. Bella cazzata. Se sei fatto in un certo modo la prima notte alla Bombonera ha chiare assonanze con altre prime notti: le sensazioni mai provate, la passione travolgente, la paura di perderti i dettagli, il desiderio di supplementari, la ritrosia ad andarsene. In quello stadio respiri fuoco. Anni dopo pago il “debito” con Batistuta andando a raccontarne l’infanzia. Partenza alle 19 dalla stazione di Retiro, 8 ore di viaggio su corriera tipo “All’inseguimento della pietra verde” (pollame e altri animali), scendo alle 3 di notte a Reconquista, provincia di Santa Fe. Qualche ora di sonno nella locanda del paese, ed ecco il padre di Gabriel, Osmar. Persona notevole, amministra i beni del figlio comprando mandrie di buoi a ogni contratto: se già la carne argentina è top, la sua si scioglie in bocca. “Mangiano solo pastura naturale!”. Al ritorno prendo l’aereo da Santa Fe e leggo che il governatore della provincia, Carlos Reutemann, è stato eletto senatore. Quel Reutemann? Certo. La Gazzetta a Buenos Aires ha un corrispondente bravo e ammanigliato, Oscar Piovesan. Tempo tre giorni ed entro al Congresso. Percorro una sfilza di biblioteche immaginando di trovarci Borges. Nella penombra dello studio riconosco il pilota bello e sfortunato, giunto a un passo dal titolo in Ferrari. L’intervista non è niente di che ma la suggestione sì. Negli occhi gli resta un’ombra di giorni ruggenti"
EL MONUMENTAL DI BUENOS AIRES, ARGENTINA. "Certo non pensavate che un solo thread sulla Bombonera potesse contenere l’intera Buenos Aires... Nella città dei cento stadi ce n’è almeno un altro da raccontare a fondo, il Monumental, casa del River Plate e in genere delle partite della Seleccion. Prima di venire al calcio, voglio ricordare che la mia prima visione di questo stadio storico avvenne sulle pagine di un capolavoro del fumetto, l’Eternauta di Oesterheld e Solano Lopez: la resistenza di alcuni intrepidi soldati a un’invasione aliena si concentra proprio qui. Una cosa che mi ha sempre fatto impazzire del Monumental è la “ragazza” dell’ascensore per i giornalisti. Ho messo virgolette perché avrà avuto 70 anni, ma si vestiva come una pin up: camicia scollata e minigonna. Vedevo in lei l’Argentina, una grande bellezza un po’ sfiorita. La partita che val la pena di raccontare è Argentina-Perú del 2009, penultima gara di qualificazione mondiale. Il c.t. Maradona ha bisogno dei tre punti. Vado allo stadio con la mia amica Emanuela Audisio di Repubblica, e trovo il posto Gazzetta occupato da... Federico Buffa. Federico è lì per un progetto su Riquelme (credo). Dividiamo il banco in tre, è una bella serata di primavera australe, la gara scorre un po’ tesa ma a inizio ripresa Higuain segna il suo primo gol in nazionale e il discorso pare chiuso. Il Perù è da tempo fuori dai giochi. A vederlo giocare non sembra, però. Il Perù comincia ad attaccare e la Seleccion arretra, visibilmente impaurita. Scoppia allora un temporale che ho sempre definito soprannaturale, perché negli ultimi 20 minuti cade su Buenos Aires la pioggia di un intero inverno europeo. La tribuna non è riparata. Emanuela scappa in sala stampa a vedersi la gara in tv, noi due non ne siamo capaci. Fradici da capo a piedi, tremanti per la tensione e il freddo improvviso, assistiamo attoniti al pareggio di Restrepo al 90’. Maradona crolla in panchina inebetito. Il quarto uomo alza nella tormenta il cartello del recupero: 2 minuti, niente. Come in un sogno la palla entra ed esce più volte dall’area, cross dell’Ave Maria e respinte alla viva il parroco. Finché Martin Palermo scarica in rete il gol più umido e sospirato che io ricordi. Il generale San Martin è un padre della patria argentina. Dopo aver fatto l’aeroplano sulle pozzanghere, Maradona chiama Palermo appunto “San Martin”. Al gol Buffa ed io ci siamo stretti la mano per scaricare la mostruosa tensione accumulata. E abbiamo riso come due argentini. Hector Oesterheld fu una vittima della dittatura militare. Molti desaparecidos vennero gettati dall’aereo vivi nel Rio de la Plata. Il volo decollava da Aeroparque, l’ultima cosa che i condannati vedevano era il Monumental. Le vittime sono ricordate al museo della Esma, lì vicino"