Ciao Derby, romanzo popolare della Milano col cuore in mano

Calcio
Juan Alberto Schiaffino, il genio uruguayano, in una foto del 25 novembre 1957 (Getty)
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Giorgio Porrà si lascia trasportare da emozione e nostalgia: qual è la prima canzone che viene in mente? Jannacci? Celentano? Paolo Conte? Viaggio nella storia sentimentale di una partita che racconta una città. Partendo da Schiaffino. I VIDEO E LE FOTO

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di GIORGIO PORRA'

“Luci a San Siro”? “Eravamo in centomila”? O “Vincenzina e la fabbrica?”. Qual è il primo pezzo che vi viene in mente, capace di catapultarvi all'istante nell’atmosfera del derby milanese? “… Se non sbaglio lei ha visto Inter-Milan con me… Ma come fa lei a non ricordar!” cantava il nerazzurro Celentano alla fine degli anni Sessanta, nel momento in cui il calcio, grande fenomeno popolare, cominciava ad assumere anche una precisa dimensione culturale. E a giocare un ruolo importante nei testi delle canzoni.

Nel ’74 Jannacci, rossonero doc, scrisse il pezzo trainante del film di Monicelli Romanzo Popolare con Tognazzi e la Muti. ”… Zero a zero anche questo Milan qui… ’Sto Rivera che ormai non mi segna più…”. In precedenza, si segnalò Vecchioni, con il racconto della sua gioventù, di un amore sacrificato per soddisfare il sogno di fare il cantautore: ”Luci a San Siro di quella sera. Che c’è di strano, siamo stati tutti là, ricordi il gioco dentro la nebbia? Tu ti nascondi e se ti trovo ti amo là”.

Tutte scelte belle, struggenti, rispettabili. Eppure. Eppure c’è una canzone che non tutti conoscono, che nessuno canticchia sotto la doccia o andando allo stadio, che raramente sentiamo nei servizi di questi giorni dedicati al derby, che meglio di altre racchiude la suggestione, l’intensità, la forza del gioco, di chi lo pratica, di chi lo venera. Con Milano, il calcio milanese, sempre sullo sfondo. Si chiama “Sudamerica”, l’ha scritta il sommo Paolo Conte (“ex alla sinistra in squadrette rionali, discreto nel tiro e nel cross, inesistente in altre specialità”, così si descrive l’avvocato) nel ‘90 ed è dedicata a Juan Alberto Schiaffino, il genio uruguayano campione del mondo (“El maracanazo”, il 2-1 inflitto al Brasile nel ’50, in gol lui e Ghiggia), tre volte scudettato col Milan, protagonista di tanti derby negli anni Cinquanta, in gol in quello del ’54 finito 1-1, da naturalizzato anche quattro volte azzurro nella Nazionale di Viani: ”L’uomo ch’è venuto da lontano ha la genialità di uno Schiaffino, ma religiosamente tocca il pane e guarda le sue stelle uruguayane”.

 



Sudamerica, di Paolo Conte

Luci a S.Siro, di Roberto Vecchioni

Vincenzina e la fabbrica, di Enzo Jannacci

Eravamo in centomila, di A. Celentano

Di Schiaffino, Eduardo Galeano ha detto: ”Con i suoi passaggi magistrali organizzava il gioco come se stesse osservando il campo dal punto più alto della torre dello stadio”. Vero, il “Pepe”, comprato a 29 anni anni dal Milan nel ’54 per l’allora stratosferica cifra di 56 milioni più 15 di ingaggio per rimpiazzare il vecchio Gren e fare reparto con Nordhal e Ricagni, era cervello raffinatissimo sul piano della tecnica pura, sempre elegante nei movimenti, con una impressionante visione di gioco.

Mai un passaggio sbagliato, mai un ricamo superfluo. Solo sostanza e personalità. Con un pizzico di vanità spalmato sul talento (“Puntuto di viso e lustro di chioma come un ospite del Musichiere”, secondo poetica definizione di Fernando Acitelli). Ed un focoso caratterino da boxeur, celebri le liti in campo col capitano della sua nazionale, Obdulio Varela, oltre alle varie squalifiche collezionate nel nostro campionato, compresa una di cinque giornate per aver mandato l’arbitro a quel paese.

Un mastino in campo, anche se con i capelli costantemente impomatati, un gentiluomo fuori, sempre alla mano, dai modi affabili e gentili. Tra lui e Rivera c’erano 18 anni di differenza, insieme hanno giocato una volta sola, in una amichevole, ma in tanti hanno avvicinato il Golden Boy al fuoriclasse uruguayano, stesso senso tattico, identico modo di accarezzare la palla. “Classe immensa ma non tirava mai indietro la gamba – ricorda Rivera – sapeva stare in campo, sfruttava la posizione, intuiva un istante prima dove sarebbe andata la palla. E quando andò alla Roma a fine carriera, si riciclò brillantemente da libero. Una volta, contro l’Inter, su un campo ridotto a un pantano si piazzò in difesa e non passò una palla. Un muro. E la sua squadra conservò l’1-0”.

“Si arrende il vento ai suoi capelli spessi, di Dio ti dice che sta lì a due passi – canta Conte in "Sudamerica" - ma mentre va indicando l’altopiano, le labbra fanno il verso dell’aeroplano”. Il suggerimento è quello di adottare questi versi in prospettiva derby. E di ricordare che ai grandi artisti si può perdonare quasi tutto. Anche la spilorceria, nella quale Schiaffino, di origini liguri, eccelleva. “Da lui – diceva sempre Niels Liedholm – era impossibile farsi pagare anche solo un caffé”.

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