L'uscita in Italia del film "Bohemian Rhapsody" diventa l'occasione per ricordare il leggendario incontro tra Freddie Mercury e Maradona nel 1981 a Vélez, un anno prima che Inghilterra e Argentina entrassero in guerra per le Falkland. Una "collaborazione" che nacque a Wembley, teatro di una giocata del Pibe de Oro che passerà alla storia...
Anche la genesi di questa foto è una forma di rapsodìa, un canto epico. Tragico, nella sua interpretazione "greca": di libera composizione e intessuta di evocazioni patriottiche, eroiche, rusticane. La "cronaca di una morte annunciata", in anteprima mondiale e con un anno di preavviso, direttamente dalla mano de dios armata (di microfono) del Diez: "Le quiero agradecer a Freddie y a los Queen por hacerme tan feliz. Y ahora: Otro muerde el polvo". What? "Otro muerde el polvo", il titolo spagnolo di Another one bites the dust, letteralmente "qualcun altro morderà la polvere". Perderà, soccomberà. È di questo, di guerra, che parla il pezzo che toccò in sorte a Maradona presentare, apparentemente in amicizia, sul palco dello stadio José Amalfitani di Vélez l'8 marzo del 1981, negli stessi giorni in cui uscì davvero il romanzo di Gabriel García Márquez ("Crónica de una muerte anunciada"). Era scritto nel destino: 12 mesi più tardi, nell'aprile del 1982, quell'ingenuo scambio di maglie tra un cantante inglese e un calciatore argentino non sarà nient'altro che polvere di stelle, un fuoco di missili incrociati tra un Regno e un Regime per il prepotente controllo delle isole Falkland/Malvinas. E sarà l'Inghilterra, che era entrata in possesso dell'arcipelago nel 1833, ad avere ancora la meglio. Come il 13 maggio del 1980 a Wembley...
"Oh mama mama mama, sai, perché, innamorato son?"
Perché è nello stadio londinese che Freddie vide per la prima volta il Pibe de Oro e quell'armonia non potè che fargli battere il corazón. "El pelusa" - com'era soprannominato per la folta e riccioluta chioma - era già l'astro nascente del calcio internazionale e nell'amichevole persa 3-1 con l'Inghilterra di quella primavera si esibì nella prova generale della vendetta che si consumerà all'Azteca il 22 giugno del 1986. Con una sottile differenza: anche a Wembley saltò tutti, ma non il portiere; anticipò sì Shilton sul tempo, ma allargò troppo l'angolazione della palla che si perse a qualche centimetro dal palo. Un "errore" che mise il broncio per una settimana buona al fratellino 11enne Hugo detto El Turco: "Dovevi scartare anche il portiere!". Nella sua autobiografia Maradona racconterà che quel "rimprovero" gli balenò in testa nell'attimo esatto in cui si ritrovò davanti ancora Shilton, a Città del Messico, nell'atto di scolpire il gol del secolo e prendersi la sua personalissima "revancha" (in realtà si erano già annusati un paio di volte quel pomeriggio: per una stretta di mano da bravi capitani a inizio partita; e per quell'altro saluto volante, benedetto dal "Barba", l'unico dio al di sopra di lui: give me five vecchio Peter...).
"Oh mama mia, mama mia. Mama mia, let me go!"
Se lo show di Maradona a Londra aveva stregato a tal punto il leader dei Queen da invitarlo sul palco nella sua tournée argentina, non sappiamo come la rockstar reagì alla mano del Barba... Ma la Regina Freddie fu più "isterica" che mai il 12 luglio del 1986, ancora affacciato sull'oceano di Wembley, a distanza di pochi giorni dalla vittoria albiceste nel Mondiale messicano, quando si riprese lo scettro e rese immortale We are the Champions, regalando un inno maestoso allo sport con una delle performance musicali più spettacolari e emozionanti della storia. Non prima di avere eseguito al piano Bohemian Rhapsody: come nel 1985 al Live Aid, che chiude il cerchio del "biopic" diretto da Bryan Singer, appena uscito nelle sale italiane, con la parte dell'istrionico frontman affidata all'attore americano Rami Malek. Distribuito da 20th Century Fox e celebrato in Carnaby Street con delle coloratissime installazioni che riprendono le psichedelia narrativa del brano inciso nel 1975, primo singolo estratto dall'album The Night Of The Opera, gonfio di riferimenti sacri - mai completamente decodificati - con improvvise "verticalizzazioni" e virtuosismi tipici dell'imprevedibilità di questo genere di sequenza melodica.
Freddie Mercury in "We are Champions", a Wembley, nell'estate del 1986
Carnaby Street, a Londra, "addobbata" con le frasi di "Bohemian Rhapsody" per l'uscita del film
Kind of Magic
Una pellicola che ci riporta alle origini di Farrokh Bulsara (il vero nome di Mercury), giovane facchino dell'aeroporto di Heathrow nato a Zanzibar e volato in Gran Bretagna con la famiglia, indiana e di religione zoroastra. L'ascesa, il successo planetario, il rapporto con gli altri membri del clan (Roger Taylor, John Deacon, Brian May); la sua bisessualità, la scoperta della sieroposività. I suoi "demoni", la solitudine, il costante desiderio di essere accettato, la disperata ricerca di qualcuno da amare (non a caso il film comincia sulle note di Somebody to love). Freddie come Diego, vittime di un dolce incantesimo, dall'Olimpo all'Inferno e ritorno, catturati dal flash di un'antica rapsodìa.