Storie di Matteo Marani: 1945, Checkpoint Trieste

L'INCHIESTA

L’inchiesta di Sky Sport ci riporta nella Trieste fra il 1945 e il 1948, tra gli avvenimenti di politica e diplomazia internazionale in cui lo sport recita un ruolo di primo piano. Il documentario del ciclo "Storie di Matteo Marani" è disponibile on demand

Il 26 aprile 1945, il giorno dopo la Liberazione, l’Italia è un Paese sconfitto. Ha perso tutto. Ha perso sugli altipiani dell’Albania, ha perso nel mare della Grecia, ha perso nel deserto di El Alamein, ha perso nella neve russa, tra le gavette di ghiaccio e le scarpe di cartone. 

L’Italia non ha perso la guerra, l’Italia ha perso tutte le guerre.

Il conflitto più lacerante è quello combattuto all'interno: la guerra civile iniziata l'8 settembre 1943. Dopo l’armistizio annunciato da Badoglio, il Paese si è spaccato in due. Il Sud liberato e il Nord occupato, partigiani da una parte e fascisti dall'altra, repubblicani e monarchici, Brigate Nere e Comitato di liberazione. Si sono spezzati i rapporti, anche in molte famiglie. Soprattutto si è divisa in due una città. Quella sublime porta verso est è Trieste.

Lassù, sulla punta più alta dell’Adriatico, con il porto che per un secolo ha servito l’Impero asburgico, la città è contesa da tutti. L’hanno reclamata gli italiani da sempre, i tedeschi per il Litorale Adriatico durante la guerra, adesso i comunisti jugoslavi, che vorrebbero farne la settima Repubblica federale. Tra cinque giorni, il primo maggio 1945, il nono corpo d'armata di Tito occuperà la città, depredando e sterminando. Quaranta giorni infernali, destinati a depositarsi nella memoria di questo splendido crocevia di cultura fra oriente e occidente. 
Ma Trieste non ci sta. Come il resto del Paese si ribella alla morte, alle spaccature. Risorge grazie allo sport. Al calcio, su tutto. Nel momento più tragico di sempre, la città sta per accogliere una delle storie più belle di sempre. Quella della Triestina, squadra capace di risalire dall’ultimo posto al secondo gradino. E capace di unire strade divise da posti di blocco come avviene a Berlino. 
Non potrebbe essere diversamente. Da quando nel 1918 è nata per celebrare l’annessione all’Italia, con una piazza principale che si chiama Unità d'Italia, la Triestina è chiamata in un unico modo dai tifosi. Ancora oggi è così. Non Triestina, come è conosciuta altrove, bensì Unione. E quella che comincia, se vorrete ascoltarla, è una magnifica storia di unione.

Il pallone non si è stato fermato neanche sotto le bombe. Il 25 aprile, il giorno in cui Mussolini lascia Milano e si avvia verso il Lago di Como, dove morirà tre giorni più tardi, all’Arena di Milano si è giocata una partita. 
L’ultimo campionato ufficiale l’ha vinto il Torino. Nel 1943-44 si è disputata una strana stagione. Al Sud, nella Puglia in cui risiedono il Re e il governo italiano, ha vinto il Conversano. Al Nord i Vigili del Fuoco di La Spezia. Invece del pullman o del treno, hanno viaggiato su un'autobotte.
Il calcio è rimasto in piedi. A Ottorino Barassi è riuscita l'impresa più grande. La Coppa Rimet, che l'Italia conserva in quanto ultima Nazionale a vincerla, fa gola ai nazisti per fonderne l'oro. Ma il dirigente ha un'idea: la nasconde dentro una scatola di scarpe e la mette al riparo sotto al proprio letto. La Coppa è salva. Ora tutto può davvero ricominciare.

I Vigili del Fuoco di La Spezia

La ricostruzione del Paese è difficile da attuare. Mentre nei cinegiornali scorrono le immagini del corpo oltraggiato di Mussolini a Piazzale Loreto - assieme ai gerarchi dell'ultimo fascismo - e mentre si succedono le riprese delle città liberate dagli alleati, il bilancio dell'Italia è spaventoso. Si contano quasi 500mila morti, fra militari e civili, soprattutto preoccupa l’arretratezza complessiva. Una famiglia su quattro vive in povertà, la disoccupazione supera il 30%, gli analfabeti sono 5 milioni e mezzo, ma raddoppiano contando quelli di ritorno. 
L'emergenza sociale si innesta in un quadro politico altrettanto complicato. Nel 1946 le forze di sinistra hanno guadagnato la maggioranza all'Assemblea Costituente. Due anni di lavoro, 139 articoli, per quella che dal primo gennaio 1948 è la Costituzione. La sfida politica resta però accesa. Le figure principali sono Palmiro Togliatti, segretario del Partito comunista, e Alcide De Gasperi, leader della Democrazia cristiana. Schivo e risoluto, nel periodo bellico ha lavorato alla biblioteca vaticana. Tocca a lui, scelto dagli americani per il piano Marshall di sostegno all'Europa, riportare l'Italia nel consesso mondiale. Durante i Trattati di pace a Parigi, il suo discorso diviene storico. "Prendo la parola – dice - e sento che tutto, tranne la vostra cortesia, è contro di me"

Alcide De Gasperi

Il primo passo per rientrare nello scenario internazionale non lo produce tuttavia la politica, bensì il calcio, a riprova della sua forza. L'11 novembre 1945 l'Italia approfitta della rinuncia spagnola e a sfida la Svizzera. Finisce 4-4. Occorrerà un anno prima che la Nazionale torni a giocare, ma il capolavoro di diplomazia è compiuto. A Zurigo hanno giocato dieci giocatori di Juventus e Torino, la città del Ct Vittorio Pozzo. Scelta obbligata: viaggiare lungo lo Stivale è proibitivo, fra stazioni bombardate e strade distrutte. Eppure il campionato è indispensabile alla rinascita del Paese e i dirigenti se ne fanno carico. Nella fase finale che mette di fronte le squadre del Sud e del Nord trionfa il Torino, squadra costruita dal presidente Novo. Bacigalupo in porta, Ballarin e Maroso terzini, Rigamonti stopper, un centrocampo sistemista formato da Castigliano e Grezar più arretrati, Loik e capitan Mazzola più avanzati. In attacco ci sono Menti a destra, Ossola a sinistra e in mezzo il centravanti Gabetto. È questa la formazione-tipo che entrerà nella leggenda dopo cinque scudetti e dopo la sciagura aerea del 4 maggio 1949. 

A quell'iniziale campionato partecipa pure la Triestina. Chiuderà ottava nel girone, un risultato non eccezionale, ma stavolta conta di più esserci. La città è stata invasa dalle truppe partigiane di Tito in maggio ed è scattata una repressione sanguinaria. Si conteranno 10mila vittime prima dell'accordo di Belgrado del 9 giugno, con Trieste divisa dalla linea Morgan tra Zona A e Zona B. La prima è sotto il controllo degli angloamericani, ma di fatto italiana, la seconda finisce in mano all'esercito di Tito. Le mire slave, ispirate dall’Ozna, la polizia politica, rimangono concrete, così come gli scontri. A Trieste il fascismo di confine è stato violento. Ha imposto l'italiano in scuole e uffici, ha mutato molti cognomi sloveni e croati. Dal 1926 al 1943 ha inflitto 2mila anni di carcere attraverso il Tribunale speciale per la difesa dello Stato. Adesso la rappresaglia slava non è certo inferiore. Si uccide nelle foibe, cavità carsiche naturali nelle montagne istriane. Lunghi cunicoli in cui gli italiani sono gettati ancora vivi e legati tra loro. Da lì verranno ripescati centinaia di corpi.

In questo clima di terrore, la Triestina scende in campo per l'orgoglio italiano e per rinnovare una tradizione gloriosa. Le pagine migliori appartengono a Piero Pasinati e Gino Colaussi, in rosa nel campionato 1945-46. Si sono laureati campioni del mondo nel '38. Colaussi ha addirittura segnato due delle quattro reti azzurre nella finale di Parigi contro l'Ungheria. Con i due, esiste una terza gloria cittadina. Si chiama Nereo Rocco ed è stato il primo triestino a vestire, nel 1934, la maglia della Nazionale. Nereo ha una corporatura notevole, che lo ha reso un calciatore potente e celebre. Fuori del campo, tutti gli riconoscono un'astuzia raffinata, un gusto unico per la battuta. A guerra finita, lavora nella macelleria di famiglia e allena la Libertas, squadra cittadina della DC, partito di cui nel 1949 sarà consigliere comunale per alcuni mesi. Sono occupazioni temporanee, perché sarà lui - fra poco - a realizzare l'impresa più grande nella storia della Triestina.

Tutto si è scritto allo stadio di Valmaura, dove Pasinati e Colaussi seguono gli ordini di Mario Varglien, campione d'Italia con la Juventus e fiumano di nascita. Costruito nel 1932 con il nome di Stadio del Littorio, ribattezzato Comunale alla caduta del fascismo, l'impianto ha ospitato i Mondiali del 1934. Sul campo che oggi si chiama Grezar, in onore dell’unico triestino deceduto a Superga, e che è stato rimpiazzato nel 1993 da un nuovo e più capiente stadio, la Triestina ha vissuto i momenti migliori. Lì Umberto Saba si innamorò della maglia rossa. "La vostra gloria, undici ragazzi, come un fiume d'amore orna Trieste" scrisse il grande poeta.

Lo stadio è nella zona a est della città, a meno di un chilometro dalla Risiera di San Sabba. Dalle tribune si può quasi vederla sul fondo e non si può non parlarne raccontando quegli anni di Trieste. Il luogo è entrato nei libri di storia perché qui fu scoperto l'unico forno crematorio allestito nel nostro Paese. Nato per la lavorazione del riso, il tetro edificio in mattoni fu una caserma nel 1940, per poi essere usato come carcere e campo di sterminio per oppositori politici ed ebrei. Anche l'Italia ha avuto un Lager ed è toccato a Trieste il primato, assieme a quello di essere una delle città con il più alto numero di ebrei uccisi. Nell'antica Risiera si possono visionare le celle strette e buie dei condannati, la camera della morte, il cortile nel quale si compirono - sotto l'hangar fatto saltare dai nazisti - le torture  peggiori. Nel punto in cui si alza la scultura di metallo, si trovava la ciminiera. Dal 1975 la Risiera di San Sabba è monumento nazionale.

La condanna di Trieste è produrre più storia di tutte le altre città. Anche nello sport è così.

Per il Coni e per le federazioni nazionali, la perla adriatica diviene nel 1946 sede obbligatoria delle prime gare del dopoguerra. In un paio di anni si disputano i campionati di fioretto, atletica, pattinaggio, vela e pugilato. Non è un caso, ma una precisa scelta nazionalista. 
Da una parte c'è il Coni, italiano, dall'altra l'Ucef, filosofava. Organizzano tornei separati e si fanno concorrenza. La sfida è costante, anche in ambito internazionale. L'Ucef vorrebbe il riconoscimento del Cio, che boccia la richiesta dopo avere ascoltato gli italiani. Per la prima volta, ripescato dall'archivio di Losanna, siamo in grado di mostrarvi il documento in cui il Coni chiede proprio in Svizzera quale debba essere il destino dei triestini
Nessuno sa dove destinarli e il documento, rivenuto dalla storico Nicola Sbetti, è di grande valore. Sull’onda di questo documento, anche la Federcalcio si rivolge nell’ottobre del 1947 agli uffici della Fifa a Zurigo. La lettera, firmata dal presidente Ottorino Barassi, ricorda come l’80% dei calciatori siano di origine italiana e come tali vadano considerati.

Nella divisione in corso, il caso più eclatante riguarda il Giro d'Italia del 1946, quello della Rinascita secondo gli organizzatori. I quali hanno l'obiettivo di far concludere a Trieste la tappa del 30 giugno in partenza da Rovigo. Chiedono l'autorizzazione agli alleati, che prima accettano e poi si oppongono, con un documento presente all'Archivio centrale dello Stato a Roma. 
Se si vuole approfondire la storia del Novecento, è inevitabile passare da questo vastissimo archivio all'EUR, nel quartiere dall'architettura razionalista che avrebbe dovuto ospitare l'Expo del 1942. Nell'Archivio centrale, fra le migliaia di fascicoli, è possibile recuperare i documenti più importanti del nostro Paese sedimentati nel corso dell’ultimo secolo, compreso questo foglio dattiloscritto relativo al Giro d'Italia. È in inglese, ovviamente, e riporta l'esplicito rifiuto di inglesi e americani all'ingresso della carovana in città.

Il ciclista Giordano Cottur

Le prime tappe di quel Giro 1946 vengono vinte dalla Willier di Trieste, formazione che corre con l'alabarda sulla maglia. I successi li firma Giordano Cottur, a sua volta triestino e capitano della squadra. La sigla, secondo alcuni, starebbe per Viva l'Italia libera e redenta. Il 19 giugno gli alleati, pressati dal tifo popolare, acconsentono finalmente all’arrivo della gara in città. Scrive Bruno Roghi sulla Gazzetta dello Sport: "A Trieste si va. Senza Trieste per noi il Giro è assurdo".
L'imboscata è però dietro l'angolo. Un altro colpo di scena. A Pieris, la corsa viene presa di mira dagli slavi. Sassi, chiodi sulla strada, ciclisti aggrediti. Molti scappano a Udine, non i 12 corridori - quasi tutti della Willier – che pedalano fino a Trieste, malgrado la tappa sia stata già neutralizzata. A vincere è ancora una volta Cottur, in mezzo a centinaia di tifosi. 
Quel giro se lo aggiudica Gino Bartali, davanti a Fausto Coppi. La sfida tra il toscano salace e il piemontese introverso è il grande romanzo popolare dell'Italia del Dopoguerra. I tifosi si dividono per loro. E la contesa infiamma i rotocalchi, la stampa sportiva, le strade. L'Italia del 1946 ha 3 milioni di biciclette e appena 150mila automobili, inevitabile che la rivalità a due ruote divenga la più sentita da chi, per la fame, ha anche il viso scavato come i propri eroi. Ai due viene assegnato un ruolo politico che va al di là della reale ragioni. Se Bartali è credente e iscritto all'Azione cattolica, la quale si dimostrerà determinante nel successo della Democrazia Cristiana alle politiche del 1948, Coppi non è certo un estremista di sinistra. La relazione extraconiugale, in cui più tardi qualcuno vorrà leggervi significati maggiori, non va oltre un sincero e tribolato amore.

Gino Bartali

L’Italia si spacca in dueCoppi o Bartali, ma anche Repubblica o Monarchia. La prima vince nel referendum del 2 giugno 1946: 12.717.923 voti contro 10.719.284 voti. I monarchici gridano ai brogli, chiedono di ricontare le schede. Alla fine Umberto II - re per un mese, quello di maggio - accetta l'esilio portoghese. La votazione ha visto la prima partecipazione delle donne. Sono state loro a tenere su il Paese sotto le bombe, a lavorare in fabbrica e ad allevare i figli nelle ristrettezze. Sono loro che vogliono giustamente fare sentire la loro voce. E sono sempre loro, proprio a Trieste, a formare la prima squadra di calcio femminile nell’Italia del 1946.

L'estate è particolare anche per la Triestina. Si è ripresentata al via con una situazione catastrofica. Colaussi e Pasinati se ne sono andati. La società fa i conti col problema-stadio. Il governo alleato ha vietato le partite interne, costringendo il club a giocare undici volte di seguito fuori casa. L'unico soccorso viene dall'Udinese. La cugina friulana presta lo stadio Moretti, un gesto generoso che andrebbe ricordato a chi ha vissuto negli anni questo derby con eccessiva contrapposizione. Una visita all'Archivio di Stato della città è necessario a ricostruire nel dettaglio la vicenda. Fra i documenti conservati nell'edificio del quartiere Montebello, nella zona dove nacque il primo campo sportivo della città, c'è il foglio originale su carta intestata dell'Udinese. Termini della convenzione, cifre, tutto scritto dal presidente bianconero Guido Cappelletto.
Le 11 sconfitte nel finale di stagione valgono alla Triestina l'ultimo postoVentesima su venti, con la miseria di 18 punti fatti e 79 reti subite. Il campionato maledetto ha però detto una cosa: gli italiani amano questa squadra. Vi mostriamo in successione le foto con i grandi onori ricevuti sul campo di Firenze, in un'osteria bolognese, dove accanto alla lavagna si riconosce un giovane Cesare Rubini, campione triestino di pallanuoto e primo italiano a entrare nella Hall of Fame del basket. E ancora Roma, dove la squadra viene omaggiata da Alcide De Gasperi e dove viene ricevuta da papa Pio XII. A lui la squadra ha donato il campanone di San Giusto, testimonianza del legame della città con la Chiesa e con l'Italia.

La Triestina non può scivolare in Serie B e l'Italia non può perdere questo diamante, specie ora che sull'altra sponda della città è spuntata un’antagonista. È incredibile, ma la divisione politico-militare è divenuta anche calcistica. Da un gruppo di fuoriusciti della Ponziana, vecchia società locale, è nata nel 1946 l’Amatori, la quale partecipa al campionato jugoslavo. Mai è successo e mai più succederà che una città si ritrovi con due squadre impegnate a disputare due tornei nazionali in due diverse Nazioni. Ma evidentemente i primati a Trieste piacciono. 
I soldi arrivano da Belgrado e i giocatori, vedendosi l'ingaggio triplicato, hanno accettato di giocare le partite a Spalato o a Zagabria, con viaggi aerei prenotati dalla vicina Lubiana. La separazione riguarda la famiglia Valcareggi. Ferruccio è stato giocatore della Triestina e diventerà il Ct della Nazionale campione d'Europa nel 1968 e vicecampione del mondo nel 1970. Ettore, legatissimo al fratello e amico di Rocco, ha accettato l’invito dell'Amatori Ponziana, rientrando da Legnano. Grazie alla cortesia del figlio Mauro, siamo in grado di mostrarvi il padre Ettore e altri immagini della squadra, pure lei retrocessa al termine del campionato 1946-47 e ripescata per motivi politici dalla Federazione. Queste foto, inutile dirlo, rappresentano una rarità assoluta per una squadra che di fatto cesserà l’attività nel 1948, all’indomani della rottura fra Tito e Stalin, con la conseguente inutilità di mantenere un avamposto slavo in Italia.

L'Amatori Ponziana, la squadra di Trieste che scelse la Jugoslavia

Trieste è così, un confine sottile e combattuto. Da lì parte la Cortina di ferro, definizione coniata da Winston Churchill. Nel 1947 è tutta la regione a essere ridiscussa. A Parigi, il 10 febbraio, è stato firmato l'accordo di pace. Che pace non è. Entro 6 mesi entrerà in vigore l’assetto finale, con gli italiani d'Istria e Dalmazia spinti ad andarsene, lasciandosi alle spalle casa, negozi e tutto quanto hanno costruito nel corso delle generazioni. Gli antichi centri italiani, inclusa Pola rimasta dopo il 1945 sotto protezione americana, passano al governo di Tito. Le partenze cominciate all'indomani dell'occupazione si trasformano in un esodo biblico. In totale, i profughi saranno 350mila, fra cui donne e bambini, molti dei quali diventeranno in seguito campioni dello sport. È il caso del pilota Mario Andretti, che lasciò Montona per trasferirsi con la famiglia negli Stati Uniti, per poi vincere il Mondiale di Formula 1 nel 1978

La famiglia Andretti

Come agli Andretti, lo stesso destino è toccato a migliaia di famiglie, traslocate nei 109 campi di raccolta allestiti nella Penisola. Altri emigreranno in Australia o nel resto dell’America. Miseria e disperazione, sovente tradotte in depressione e alcol. Il simbolo di questa straziante storia - troppo a lungo negata e troppo a lungo dimenticata nei libri di storia - è la motonave Toscana, impegnata nei viaggi da Pola ad Ancona o a Venezia. Così fu anche per Nino Benvenuti, nato in Istria, cresciuto a Trieste e campione del mondo superwelter e medi.
Una volta in Italia, molti profughi furono accusati di collusione col fascismo, un sospetto di solito infondato, ma inserito nella battaglia ideologica del tempo. La portata del dramma è restituito dal Magazzino 18, uno dei tanti fatti costruire dagli Asburgo al porto giuliano nel corso dell’Ottocento. Dopo una serie di traslochi avvenuti nel corso degli anni, oggi il Magazzino 18 conserva le masserizie degli esuli. Mobilio, sedie, oggetti quotidiani, mai più recuperati dai legittimi proprietari. Molte arrivano dalle città in cui gli esuli sbarcarono, e tutte assieme formano oggi il luogo del ricordo. 

Tanti gli atleti arrivati dalla Dalmazia, come il velista Agostino Straulino e il mezzofondista Ottavio  Missoni, futuro stilista. Fiume, in particolare, fu grande nel calcio. Lì era nato Mihalich, il primo giocatore della regione a vestire l’azzurro nel 1929. Nel dopoguerra toccherà al granata Loik e al romanista Volk allungare la scia. La Fiumana nel 1928 venne inserita in Prima Divisione e vi rimase, arrivando terza nel suo girone l’anno successivo. Una squadra cancellata dalla storia e che nulla c'entra con il Rjeka, così come si chiamano città e squadra ai giorni nostri. Solo negli Anni 50, grazie alla comunità giuliana di Torino, è stata rimessa in piedi una Fiumana.

Ottavio Missoni

Il 1948 diviene un anno decisivo per il Paese, per il calcio e per la Triestina.

L’Italia è chiamata alla più lunga e sofferta campagna elettorale nella storia della giovane Repubblica. Democrazia Cristiana contro Fronte Popolare, costituito da Pci e Psi. Non solo due partiti di fronte, ma anche due visioni del mondo. L’occidente cristiano contro l’internazionalismo ateo. Il 18 aprile 1948 vincerà la Democrazia Cristiana.

Per il calcio è la fine del ventennio di Vittorio Pozzo come Commissario tecnico della Nazionale. Ha vinto due Mondiali e le Olimpiadi del 1938 a Berlino. In Europa tutte le squadre stanno giocando con il sistema, che in Italia pratica il Grande Torino. Ma Pozzo fa fatica, non lo capisce, è più legato al vecchio Metodo. Peggio: fonde i due moduli e subisce quattro gol dall’Inghilterra, prima della disfatta contro la Danimarca alle Olimpiadi del 1948 in Inghilterra. Verrà liquidato con un piccolo appartamento nel centro di Torino, dopo vent’anni di soli rimborsi spesa. Il calcio, colpevolmente, lo dimenticherà troppo in fretta.

Vittorio Pozzo al Mondiale italiano del 1934

Intanto, però, la Triestina sta davvero per scrivere la storia.

Mentre la tragedia al di là del confine assume proporzioni gigantesche, c'è una ragione in più per mantenere la Triestina in Serie A. Gli applausi, i fiori, l’affetto che circonda le divise alabardate è trasversale. L'estate del 1947 è spesa nel salvataggio della squadra. Un lavoro di tessitura politica portato avanti dal presidente Brunner. Per provare a dare una sterzata, decide lui di scrivere di suo pugno venti lettere e di inviarle direttamente ai colleghi della Serie A. Un tentativo estremo.

Il  29 luglio 1947, in un'affollata assemblea federale nella Sala dei Notari di Perugia, la Triestina viene salvata con voto unanime e per motivi patriottici. La motivazione precisa si conclude così: "Tenendo conto del valore morale e simbolico che Trieste ha per tutti gli italiani". Non protestano nemmeno Brescia e Venezia, anch'esse retrocesse. Qualcuno ipotizza una Serie A a due gironi, invece prevale l'idea di un torneo allargato a 21 squadre. Non è mai successo prima, non si ripeterà più, ma fra tanti record questo è quello che rende più felice Trieste.

Servono ora i soldi per allestire una rosa competitiva. Sempre Brunner chiede aiuto a Roma. Il destinatario è il giovane sottosegretario Giulio Andreotti. Sono documenti eccezionali, introvabili, che solo la magia della ricerca può restituirci. Ma perché la Triestina si rivolge proprio all'esponente politico romano? L'uomo che per sette volte guiderà il governo italiano. Semplice: perché oltre a essere il braccio destro di De Gasperi, e oltre a esserne nota la passione sportiva, Andreotti guida l'UZC, l'ufficio per le zone di confine. Da lì vengono elargiti i soldi a Trieste e Brunner non si fa scrupolo di implorare aiuto, allegando i bilanci del club per essere ancora più convincente. Il campionato della Triestina è fantastico. Esaltante.

Giulio Andreotti

La mossa decisiva è l’ingaggio di Nereo Rocco, il futuro allenatore del Milan campione d'Europa nel 1963 e nel 1969, il tecnico che farà di Gianni Rivera il più forte calciatore del mondo. Ma anche il protagonista di primo piano del calcio, colui che entrerà nella letteratura di questo sport per alcune frasi famose, rigorosamente pronunciate in dialetto triestino. Al di là del colore, Rocco contiene anche molta sostanza.

Nel Padova, dove ha speso gli ultimi scampoli da calciatore, ha incrociato l’ungherese Josef Banas, uno dei primi ad apportare dei correttivi al Sistema con cui giocano oramai tuttle squadre in Europa. Rocco lo fa in chiave difensiva, rendendosi conto che senza contromosse non resiste alla forza del Grande Torino, ma neanche a quella della Juventus, dove da poco più di un anno è stato messo sotto contratto un giovane di Barengo, campagna di Novara. Il suo nome? Gianpiero Boniperti. Appena ventenne, si aggiudica la classifica dei cannonieri con 27 reti, sfoderando un tocco elegante e un tiro potentissimo da centravanti vero. Con lui, il club si avvia a una stagione di grandi successi, che si concentreranno tra gli Anni 50 e 60, quando sarà affiancato da Sivori e Charles per una delle Juventus più forti di ogni tempo. Boniperti, prima di diventarne il presidente, chiuderà con 178 gol in 144 partite e 15 stagioni in bianconero

Giampiero Boniperti

Proprio la Juve si porta in testa al campionato 1947-48, prima di cadere a Milano contro l’Inter. La formazione nerazzurra disputa un girone d’andata formidabile, guidata in panchina da un tandem insolito. Accanto alla gloria per eccellenza, il più grande interista di ogni tempo Peppino Meazza, passato da poco a fare l’allenatore, c’è Nino Nutrizio, giornalista per moltissimi anni e direttore della Notte e che introdurrà uno stile populista sui giornali. La curiosità? È triestino anche lui. Ma la vera notizia in casa Inter spetta al debutto in prima squadra di un toscano veloce con i piedi quanto con la lingua. Quella sua capacità di fulminare gli avversari sul campo, ma anche fuori con soprannomi feroci, gli vale il soprannome di Veleno. Benito Lorenzi giocherà 11 anni con la maglia nerazzurra, una specie di seconda pelle, e andrà a segno 138 volte in 305 partite giocate, oltre alle 14 gare con la Nazionale. Lorenzi sarà l’ìndiscusso leader e l’assoluto trascinatore della formazione che si aggiudicherà i due scudetti con Foni allenatore nel 1953 e nel 1954.

Benito Lorenzi, soprannominato Veleno

Ma il girone di ritorno dell’Inter risulta disastroso e così il terreno resta libero per il Torino di Mazzola, la Juventus di Boniperti e per il Milan. Non è ancora quello formidabile del trio svedese Gre-No-Li, la squadra che nel decennio dal 1950 al 1959 riuscirà a vincere ben quattro volte lo scudetto e a trionfare in Europa nei Sessanta. In quel Milan, presieduto da Umberto Trabattoni e allenato da Giuseppe Bigogno, brillano le stelle dei due attaccanti: l’uruguaiano Hector Puricelli, detto testina d’oro e costretto a lasciare Bologna dopo la guerra per paura di rappresaglie politiche, e Riccardo Carapellese, attaccante anche della Nazionale.
La Triestina sorprende tutti e dopo una partenza col freno a assume un passo spedito che si fa marcia con il procedere del campionato.

Rocco ha ideato due scelte decisive. La prima è quella di mettere il terzino destro Blason alle spalle della difesa, a spazzare via il pallone. Non meno di 80 metri in avanti, lo incita durante gli allenamenti. E l’altro esegue. In pratica, sebbene non codificato, è nato il libero all’italiana, l’arma tattica su cui verranno costruiti i grandi successi della Nazionale e del calcio milanese negli Anni 60. Quel catenaccio di cui il cantore supremo sarà Gianni Brera, amico di Rocco e compagno nelle lunghe cene all’Assassino, permette di colmare la differenza con i campioni.

A Trieste lo chiamano mezzo sistema, mentre a Salerno, dove opera Gipo Viani, si parla di Vianema, con il centravanti tattico Alberto Piccinini, papà del giornalista Sandro, pronto ad arretrare e a mettersi in marcatura sul 9 avversario.
Al di là di chi spetti il primato, siamo di fronte a due geni del calcio, che si incontreranno alla guida della Nazionale olimpica del 1960 e al Milan, dove mostreranno al mondo le loro superiori capacità tattiche. Il cuoco bravo è quello che sa cucinare con ingredienti poveri, come Rocco con quella Triestina.

L’altra mossa decisiva riguarda Memo Trevisan, tornato a giocare nella squadra della sua città e della sua adolescenza dopo l’esperienza al Genoa. Rocco lo impiega da centrocampista molto arretrato, in modo da dare copertura alla difesa. Una soluzione che oggi di definirebbe di schermo davanti ai centrali e che allora era semplicemente il frutto della necessità.
Con Blason, in difesa ci sono il portiere Striuli, capitan Radio, Sessa e Zorzin. A centrocampo, con Trevisan, Presca e Tosolini, il quale agisce dietro il trio d’attacco Rossetti, Ispiro e Begni, capocannoniere della squadra con 11 reti. Una rosa di onesti mestieranti, ma terribilmente efficace e resa concreta dalla fantasia di Rocco, in grado di battere il Milan a Valmaura. In primavera, in 15 partite, la squadra mette a segno 22 punti e vola al secondo posto finale, a pari punti – 49 – con Juventus e Milan. Sei in meno del Torino, che lassù partecipa però a un campionato soltanto suo, fatto da campioni straordinari. Tolti i mostri, la Triestina non è stata inferiore a nessuno.

Quella Triestina ha fatto un’impresa eroica, gigantesca, speciale. Il secondo posto è toccato a provinciali nel nostro dopoguerra: l’Udinese nel 1955, il Vicenza di Paolo Rossi nel 1978 e il Perugia di Castagner, quello imbattuto, nel 1979. Ma a Trieste l’opera è stata ancora più grande e inaspettata, perché fatta con una squadra retrocessa 12 mesi prima. Una squadra tenuta su unicamente dal senso di sacrificio dei giocatori e da un allenatore più scaltro di tutti.

Ma anche da una storia più larga, la storia di una città che a quel successo sportivo ha chiesto la sua stessa esistenza, la sua identità. Vincere nel calcio e nello sport per dimostrare che Trieste non era solo una città bellissima e unica, ma anche unita all’Italia, non dimenticata in mezzo alle tragedie che nel Novecento l’hanno colpita da ogni lato.

Austriaca e italiana, europea e balcanica, un po’ Venezia e un po’ Budapest, in fondo Trieste ha sempre diviso, ma ha anche saputo unire ogni volta, nel suo complesso quotidiano. Armeni ed ebrei, ortodossi e cattolici, profumi della lontana Grecia portati dal vento accanto all’aroma dei suoi caffè parigini, dentro i quali Joyce e Svevo hanno scritto capolavori. Eppure soltanto lo sport poteva riuscire laddove la politica ha fallito con Trieste. Restituire la città, l’anima più profonda della città, all’Italia. Riportando i suoi campioni sotto al tricolore. Perché in fondo questo è il senso ultimo di una gara, di qualunque competizione: correre, soffrire, lottare per qualcosa in più che non si vede, ma che regge tutto quello che si mostra.

La forza nascosta che trovò Nino Benvenuti nello sconfiggere Griffith al Madison Square Garden la notte in cui l’Italia rimase in piedi per sentirlo vincere alla radio. In quei pugni c’era la sua infanzia. E la forza che ha avuto il fiumano Abdon Pamich nel marciare per 50 chilometri, solo e sfiancato, per vincere l’Olimpiade di Tokyo del 1964. La forza di Mario Andretti di correre più veloce di tutti, di sconfiggere la paura, forse per scappare al dolore del passato, alla malinconia. La forza che ebbe Cottur nello sprintare per la sua terra e quella che dimostrò una squadra di ragazzi, tutti nati a Trieste, nell’arrivare fin lassù. Ricordarono a tutti che c’erano anche loro e che nulla smetteva di esistere, nemmeno dopo una guerra straziante come quella. C’era l’Unione, la forza dell’Unione e di uno sport che ancora una volta aveva abbattuto gli steccati e le divisioni.