Di Canio: "Io, il fair play e un amore chiamato Lazio"

Calcio
Paolo Di Canio
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L'ex attaccante biancoceleste e del West Ham si confessa a "I Signori del Calcio" (in onda sabato alle 23.15 su SKY Sport 1): "Mi sento uno che ha contribuito a divertire e far arrabbiare i propri tifosi e quelli avversari"

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Domani, sabato 9 maggio, su Sky Sport 1, alle ore 23.30, torna “I Signori del calcio“. Protagonista di questa puntata Paolo Di Canio.

Ti senti un signore del calcio?
Mi sento uno dei tanti milioni di ex calciatori professionisti che hanno praticato questo meraviglioso sport, uno che ha contribuito a divertire e far arrabbiare i propri tifosi e quelli avversari. 

Cosa significa la Lazio nella tua carriera?
Non sono mai riuscito a stare con i più forti e crescere negli anni della grande Roma, con la Lazio che soffriva in B, mi ha fatto scegliere subito la Lazio, forse anche per i colori, il bianco e il celeste. L’ho sentita subito come una missione. Da calciatore sono andato via negli anni in cui la Lazio costruiva le vittorie e sono stato fortunato, perché così forse avrei cambiato squadra. Poi ho rivissuto, da giocatore e da tifoso, la Lazio che doveva rinascere e salvarsi da un fallimento calcistico. Questa è una cosa che porterò dentro per sempre.

Hai iniziato e finito la carriera nella Lazio, dove sei una bandiera, forse per i gol nei derby?
I tifosi ti danno dei ruoli e un’immagine. Io non sono una bandiera come calciatore, ma da tifoso posso dire di aver portato sempre con onore la bandiera. Ho sempre seguito la squadra, ho dato tutto perché aver conosciuto la tifoseria da dentro ha fatto sì che io mi sia sempre impegnato al massimo per la gente che mi seguiva, applaudiva o anche fischiava, ma sempre per amore. Penso che nessuno sia una bandiera perché da un certo punto in poi i soldi annacquano quello che è il sentimento, anche il più puro del mondo. Penso che sia anche facile rimanere nelle squadre quando sono forti e guadagni 5-6 milioni di euro a stagione. 

Nel gol contro la Roma nel derby e nel festeggiamento sotto la Curva Sud con quel dito, cosa c’era?

C’era solo un tifoso in campo che aspettava di realizzare il suo sogno, quello di esultare ad un gol della Lazio sotto la curva della Roma. Io non l’ho fatto con la sciarpa, ma con la maglia, che poi è il vestito più importante per un tifoso e per un giocatore. E’stata una gioia immensa.

Una gioia che faceva pensare a te come ad un simbolo di una squadra, invece, poi, vieni ceduto alla Juve. Come l’hai presa?
Per i rapporti che si erano creati ci sono stato male però dissi subito che ero andato alla Juve facendo una scelta, dopo aver esaminato tante cose. All’inizio sono stato messo alle strette perché mi era stato detto che dovevo andare via altrimenti avrei guadagnato le metà. Io avevo 19 anni e lì mi aiutò il mio procuratore Moreno Roggi. Poi, la gente mi ha visto come un traditore e questo mi ha fatto molto male ma ha fatto crescere in me la convinzione che ero più laziale di tanti altri.

Perché nella Juve non sei esploso?

Non sono diventato subito Del Piero anche perché sono arrivato insieme a tanti altri giovani forti. C’era Baggio in grande ascesa, Reuter, Corini, David Platt, Haessler. Era difficile farci giocare tutti. L’idea di Maifredi di farci giocare insieme naufragò subito. Poi, con Trapattoni ho giocato molto, 79 partite di campionato in tre anni, abbiamo vinto la Coppa UEFA. E’ stata una crescita importante a livello professionale e umano.

Con Trapattoni, poi, cos’è successo?
A Palermo, in un’amichevole estiva, fece entrare tre giovani della Primavera prima di me e la presi come una mancanza di rispetto a livello professionale. Quell’anno avevamo vinto al Coppa Uefa e anche se era nell’aria che dovessi andare via, non era giusto far giocare dei giocatori della Primavera prima di me.

Alla Juventus hai conosciuto Vialli?
Vialli è stato un grande maestro, sia nella vita che da un punto di vista professionale. Ricordo che si fermava da solo dopo ogni allenamento a fare dei movimenti in area di rigore per migliorarsi. Mi diceva che la maggior parte dei suoi gol li segnava negli ultimi venti minuti di gioco, quando calava la concentrazione degli avversari. A livello tecnico, nel prendersi lo spazio e calciare verso la porta, è stato uno dei migliori al mondo. Dopo quell’incontro ho fatto molti più gol, soprattutto nei venti minuti finali.

Poi sei andato a Napoli, dove hai conosciuto Lippi?

Sì, era stato mandato via dall’Atalanta. Andai perché il Napoli non aveva soldi, in prestito dalla Juve. Mi ricordo che dopo una settimana Lippi mi chiamò durante l’allenamento dicendomi che qualche dirigente della Juve durante l’estate gli aveva detto di non prendermi perché ero un po’ pazzerello, ma che ero il più grande professionista con cui aveva lavorato. Questo contribuì a responsabilizzarmi a livello comportamentale e a far crescere in me l’autostima in campo. Ci riuscì perché raggiungemmo la Coppa Uefa quando tutti pensavano che retrocedessimo. 

Che opinione avevi di Moggi? Rappresentava veramente il potere del calcio?

Una volta mi disse: “Devi andare al Genoa“. E io gli risposi: “No, non ci vado“. E lui replicò: “Se tu non vai là, starai fermo un anno“. Questa non la presi come una minaccia, nel calcio è sempre stato così, mi era successo anche alla Lazio qualche anno prima. Purtroppo il mondo del calcio funziona così, posso capire che possa turbare chi non ha un carattere forte come il mio. In ogni caso, dopo una settimana venne il Milan. Penso di avere visto gente molto più brutta di Moggi, in lui c’era solo l’arroganza, la durezza di un dirigente magari un po’ diverso da altri, ma funzionava così anche in Serie C. Quindi non credo sia stato l’unico.

Dal Napoli al Milan…
Capello mi volle come esterno, anche se poi giocai spesso anche come seconda punta. Avevo giocato una grande stagione nel Napoli e Lippi gli disse che ero pronto per una grande squadra perché a livello fisico avevo lavorato molto.

Capello ti teneva in grande considerazione? E allora come mai la storia è finita con quel faccia a faccia?

Dimostrai come al solito la mia coerenza in occasione di un’amichevole estiva. A fine campionato, avevamo vinto lo Scudetto andammo in tournèe dove di solito si portano i giocatori in prestito, non i Nazionali. Vennero Gualco dalla Cremonese e Desideri dall’Udinese. La prima partita era in Corea, pensavo di giocare e invece Capello disse che dovevamo giocare con la sciabola, non col fioretto. Non ero in formazione e mi arrabbiai molto. Poi andammo a Pechino dove giocai in attacco con Lentini e Baggio, finì 0-0. Capello si arrabbiò molto ed in modo molto severo mi disse che mi avrebbe sostituito con Eranio. Ci rimasi veramente male, reagii prendendo a calcio una bottiglia, cominciò un battibecco e siamo anche arrivati vicini al contatto fisico. Col tempo però, ho capito cos’è la serietà perché nonostante avesse già firmato col Real e nonostante sarebbe andato via dopo quelle tournèe, la prendeva comunque così sul serio.

Come è nata la scelta del Celtic?

Potevo andarci già l’anno prima ma avevo rifiutato perché prima volevo vincere un campionato in Italia. Da piccolo giocavo molto a Subbuteo e già allora ero tifoso del Celtic. Tommy Banks mi voleva ancora e mi sono messo subito d’accordo. Fu un’esperienza meravigliosa.

Hai giocato moltissimi derby. Com’è quello di Glasgow?

C’è tutto quello che è l’espressione di un essere umano: la religione, la politica, la cultura diversa. E’ sentito in una maniera totale come da nessun altra parte. A Roma è sentito più a livello sportivo, però, quello è il più sentito al mondo, per un discorso che va aldilà del calcio.

Poi la Premier League. E’ stato un altro salto di qualità per te?
Sì, è un calcio totalmente diverso rispetto alla Scozia. In Premier League, ho respirato il calcio vero, quello che negli anni si è evoluto ed è diventato il più bello, il più seguito e il più produttivo a livello di risultati.

Hai fatto molte cose buone però quella che si ricorda di più sono le 11 giornate di squalifica per la spinta all’arbitro Alcott…
In una partita contro l’Arsenal, in casa, ci fu uno scontro fra Jonk e Vieira, che aveva giocato con me per sei mesi nel Milan. Volevo dividerli, fermare Vieira. Keown, che mi soffriva molto perché lo facevo ammattire, facendo finta di dividerci, mi diede una gomitata diretta. Io lo presi per il collo e cercai di dargli un calcio sulla gamba. Arrivò l’arbitro e mi fece vedere il cartellino rosso: istintivamente gli misi le mani sul petto mandandolo a quel paese. Non mi ero nemmeno reso conto che lui era caduto, quasi simulando. Fu un errore grave.

Poi, nel West Ham la tua popolarità è cresciuta. Nel 2001-2002 hai fatto 16 gol e sei diventato il miglior giocatore della Premier
Avevo già vinto il premio in Scozia, ma fu un orgoglio vincerlo per la Opta Statistics, che valuta l’incidenza di un giocatore sulle prestazioni di una squadra. Le giurie solitamente prediligevano sempre Henry o i giocatori di squadre più blasonate. Invece feci molti gol e molti assist con grande qualità. Quel West Ham era forte, c’erano molti talenti giovani: Lampard, Ferdinand, Joe Cole, Carrick, Sinclair, James, Kanoutè. Io ero la chioccia e poi diventai anche capitano. Fu un’annata strepitosa.

Miglior giocatore della Premier, ma non convocato in Nazionale

No, perché un allenatore può selezionare chi vuole. Si aveva la presunzione, che poi si ha ancora, di pensare che il calcio italiano sia il più importante e il più difficile. Secondo me in questo momento siamo i quarti in Europa dopo Inghilterra, Spagna e Germania. E, se continuiamo così, andremo avanti a fare figuracce. Un pensierino alla Nazionale lo avevo anche fatto, ci rimasi un po’ male quell’anno.

C’è un episodio che è valso più di un gol e con cui hai vinto il premio fair play, quando hai rinunciato ad un gol perché il portiere era a terra infortunato…

Giocavamo contro l’Everton fuori casa. L’episodio era evidente, il portiere si era fatto male da solo e in Inghilterra in quelle situazioni non ci si ferma. Al momento del cross io mi ero già fermato e Watson, che mi marcava, era andato a difendere la porta. Io ero da solo e con la porta vuota. Se avessi voluto, sarebbe stato facile segnare, ma era una situazione impari. Non mi interessano i complimenti che mi fece Blatter, ma quello che mi ha colpito è stato l’affetto dei tifosi.

Nonostante questo però, sei tornato in Italia?

Era il mio sogno, concludere la mia carriera alla Lazio. Non ho mai dato importanza ai soldi, ma se posso rinunciarci per qualcosa che mi fa stare bene, lo faccio. Non me ne pentirò mai, nonostante come sia finita la mia avventura alla Lazio. Sono stati due anni di conflitti, di critiche in un posto dove ero andato con amore. Mi dicono “chi te l’ha fatto fare?“. Io sono orgoglioso di aver indossato di nuovo quella maglia, di avere fatto subito gol nel derby come 15 anni prima e di aver gioito con il popolo laziale.

Rifaresti anche quel gesto ai tifosi della Roma?
Certo, tremila volte. Quel giorno c’erano molti striscioni contro di me, ma loro non avevano capito che queste cose mi caricano. Dovevano snobbarmi, invece così mi hanno reso più forte. Loro avrebbero preferito perdere 3-0 piuttosto che pareggiare con un mio gol. Lo so, questo è il derby. Hanno sempre sofferto il mio esser attaccato in questo modo alla squadra, loro un giocatore così non l’hanno mai avuto, adesso forse De Rossi incarna il vero leader della Roma perché caratterialmente è vicino ai ragazzi della curva.

La tua appartenenza alla curva di ha fatto passare quasi per un capopopolo, come se tu nella Lazio sfruttassi la vicinanza con i tifosi per avere un futuro
Era assolutamente il contrario, anche perché da persona mediamente intelligente sapevo benissimo che per l’opinione pubblica essere vicino a quella Lazio e a quei tifosi etichettati come razzisti poteva solo danneggiarmi, ma io non seguo l’opinione comune, fintamente perbenista. L’ho fatto perché sono un puro e non dimentico le mie origini, perché le radici sono fondamentali anche se poi si matura.

Con un altro carattere avresti ottenuto di più o di meno nella tua carriera?

Ho avuto problemi per il mio carattere ma ne sono comunque uscito sempre grazie al mio carattere. Fossi stato meno istintivo, rivoluzionario, non so cosa sarebbe successo. Sono felicissimo di quello che ho fatto e di quelli che quando m’incontrano ancora mi ricordano. E poi di aver giocato come se il calcio fosse un “rugby con i piedi“ cercando di abbinare tecnica a grinta, rabbia, intensità.