Bearzot, il regista con la pipa: storia di un italiano vero
CalcioMASSIMO CORCIONE ricorda il ct dell'82. Per un quarto di secolo era rimasto il profeta inarrivabile, l'uomo che era riuscito a portare il nostro calcio a dominare dall'alto di un Mondiale tutti gli altri. La vittoria in Spagna lo rese unico. FOTO E VIDEO
E' morto Bearzot. Addio al vecio che vinse il Mundial '82
L'Album della Nazionale
Manda qua il tuo ricordo di Enzo Bearzot
di MASSIMO CORCIONE
Per un quarto di secolo era rimasto il profeta inarrivabile, l'uomo (l'unico) che era riuscito a portare il calcio italiano a dominare dall'alto di un mondiale tutti gli altri. Sì, c'era stato Vittorio Pozzo prima della Guerra, ma quelli erano altri tempi, dove potevi trovarti come avversari Cecoslovacchia, Francia, magari anche Stati Uniti, ma non certo il Camerun. Insomma il mondiale post guerra aveva davvero coinvolto tutti. E l'Italia di Enzo Bearzot li aveva messi in fila alle proprie spalle. Compreso il Brasile di Falcao e Zico e l'Argentina di Maradona. I due miracoli erano stati compiuti lì, ben prima di semifinale e finale. In quel girone impossibile, un'avventura inizialmente destinata a finire nell’album delle figuracce si trasformò in epopea. Dopo, nell'estate del 1982, tutto sembrò già scritto, realizzazione di un evento predestinato. L'ultima partita con la Germania (la finalista peggiore che può capitare di incontrare in un qualsiasi torneo), Pertini in tribuna, la coppa del mondo alzata al cielo, anche lo scopone giocato con il Presidente sull’aereo che riportava a casa gli eroi, apparvero come dettagli curati da cinema neorealista, il più italiano dei generi.
Zoff-Gentile-Cabrini… più o meno come Sarti-Burgnich-Facchetti…, litanie che segnano generazioni di tifosi. E a mettere insieme i grani del rosario era stato lui, Enzo Bearzot, il cittì fatto in casa che non era stato gran campione e che in panchina aveva guidato, fuori dall’esperienza delle varie nazionali, solo il Prato, mica il Real Madrid.
Aveva preparato il suo disegno in quattro anni, dall’Argentina dei desaparecidos alla Spagna dei nuovi entusiasmi popolari. Non è che gliene importasse tanto del contorno, a Bearzot. Era stato simbolo del Toro riemerso dalla tragedia di Superga, ma non esitò a puntare sul blocco Juventus. Un bianco e nero impreziosito qua e là da qualche tocco di colore (Collovati, Bruno Conti, Antognoni, Graziani, Oriali e Altobelli, Zaccarelli, soprattutto Beppe Bergomi). Ne aveva fatto un gruppo, termine che ancora non era abusato: non sempre amici veri, ma parti di un unico meccanismo. Se Paolo Rossi diventò Pablito, fu merito suo. Gli fu vicino nei mesi della squalifica, lo sostenne, lo volle fortissimamente al mondiale nonostante avesse giocato appena qualche partita in campionato, lo sostenne quando tutti gli diedero addosso, mise la propria faccia e quella del suo capitano Zoff quando fu deciso il primo silenzio stampa, diventato presto rito scaramantico. Fino all’epilogo. Non ci fu un Circo Massimo per quella squadra, erano altri tempi ed Enzo Bearzot era un altro cittì.
Troppo perfetto quel capolavoro per ammettere repliche. Per ventisei anni è rimasto magico aneddoto da raccontare a chi ormai declamava altre formazioni, fatte di nomi stranieri assoldati per far vincere qualcosa almeno ai nostri club. Lentamente Bearzot scomparve, nessuno può dire se per volontà sua o per colpevole oblio. Continuò a fidarsi dei soliti amici: i suoi ragazzi, che verso di lui hanno sempre serbato una gratitudine tanto sincera da sembrare fuori dal tempo, e quei giornalisti (pochissimi) di cui aveva imparato a fidarsi. La vittoria del 2006 rese le foto del mondiale spagnolo ancora più ingiallite, gli eroi dell’82 erano ragazzi cresciuti ormai dediti al commento più che all’azione, Beppe Bergomi urlò quattro volte campioni del mondo, omaggio sentitissimo a chi lo aveva imposto diciottenne come titolare in un campionato mondiale. Un tocco da Sciuscià che aveva reso Enzo Bearzot, il regista con la pipa, ancora più un grande italiano.