Quando il calciatore inciampa sulle cattive amicizie

Calcio
Fabrizio Miccoli e Salvatore Lauricella, figlio di Antonino, boss di Cosa Nostra
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Dal boss Cutolo a Maradona fotografato nella vasca da bagno dei camorristi. Dalla tentata scalata dei "Casalesi" alla Lazio, alle raccomandazioni malavitose per un provino, fino a Miccoli. Le relazioni pericolose pallone-criminalità. LE FOTO

di Gianluca Maggiacomo

Il bandito e il campione. Una foto. Clic. Poi, le polemiche. La ribalta mediatica. E non per le gesta in campo.

L’ultimo ad esserci cascato è Fabrizio Miccoli. Il bomber del Palermo è finito nell’occhio del ciclone per l’amicizia con Salvatore, il figlio -incensurato- di Antonino Lauricella, il mafioso arrestato il 12 settembre dalla squadra mobile del capoluogo siciliano.

Il calciatore e il figlio del boss. Storia di un’amicizia. Che dura da tempo, a quanto pare. E che è stata immortalata in due fotografie pubblicate su Facebook e finite, poi, su tutti i giornali. Per Miccoli nessuna indagine della magistratura. Ma un po’ d’imbarazzo, sì.

Eppure “il Romario del Salento” non è il primo a finire nel ciclone per scatti al fianco di boss o persone vicine alle organizzazioni criminali. Altri calciatori, prima di lui, sono inciampati in amicizie pericolose. Come Marek Hamsik. Che, senza saperlo, l’anno scorso si è fatto ritrarre al fianco del latitante Domenico Pagano, un affiliato al clan degli Scissionisti. In scivoloni fotografici sono incappati anche Fabio Cannavaro e Roberto Carlos. Di recente, invece, Mario Balotelli ha passeggiato per le vie di Scampia accompagnato dai boss Marco Iorio e Biagio Esposito.

Per i mafiosi la foto con il calciatore famoso è un cimelio. Qualcosa di cui vantarsi. Quasi un ulteriore simbolo del loro potere e del loro prestigio, da ostentare agli occhi della gente comune e degli altri malavitosi.

Personaggi del mondo del pallone e boss. I contatti tra questi due mondi non sono sempre casuali. E non sempre si limitano a “innocenti” foto-ricordo. Anzi. Spesso sono rapporti stretti e duraturi. Come quello tra l’ex presidente dell’Avellino, Antonio Sibilia, e Raffaele Cutolo, leader della Nuova Camorra Organizzata. È l’ottobre del 1980. Il patron degli irpini si presenta a un’udienza nell’aula bunker del tribunale di Napoli dov’è in corso il processo a carico del boss. In una pausa Sibilia si avvicina a Cutolo. Lo saluta con tre baci sulle guance. Poi è il turno del bomber bianco verde Juary. L’attaccante brasiliano, famoso per festeggiare i gol danzando intorno alla bandierina del calcio d'angolo, consegna al boss una busta voluminosa. Dentro c’è una targa con la scritta “A Raffaele Cutolo dall’Avellino Calcio”. Il tutto avviene alla luce del sole, sotto gli occhi di tutti. Inclusi i giornalisti. Tra loro c’è Luigi Necco, corrispondente di “Novantesimo minuto”. Il cronista vede e racconta tutto in diretta televisiva. Qualche giorno dopo viene gambizzato.

Rapporti pericolosi, quelli tra sportivi e mafiosi. Che possono diventare dei tritacarne micidiali. Come successo a Diego Armando Maradona ai tempi in cui faceva impazzire di gioia il San Paolo. A Napoli tutti sapevano di quanto l’argentino fosse amato dalla Camorra. Anche i sassi, o il Vesuvio, erano a conoscenza dell’amicizia con Salvatore Lo Russo, l’ex boss di Miano che aiuterà Diego a ritrovare i 20 orologi d’oro che gli erano stati rubati durante un furto in casa. Anche i Giuliano, il clan del quartiere Forcella, erano intimi amici del Pibe de oro. A metà degli anni 80, quando gli azzurri dominavano la Serie A, Maradona era di casa nella villa dei boss. Tanto da farsi fotografare (sì: ancora una foto) con i due fratelli Giuliano, Carmine e Luiginino detto “O’ Re”, mentre,sorridenti, posano in una sfarzosa vasca da bagno a forma di conchiglia. Uno scatto che ha fatto storia. E che è diventato il simbolo dei rapporti tra Dieguito e la mala partenopea.

In anni più recenti la Camorra ha tentato di alzare il tiro. Non più (solo) amicizie con alcuni calciatori e dirigenti e il controllo di piccoli club dilettantistici sparsi nel casertano. Ma protagonisti in prima persona con investimenti diretti. I più attivi sono i Casalesi che, nel 2004, mettono gli occhi sulla Lazio. Il clan di Casal di Principe si nasconde dietro un nome importante: Giorgio Chinaglia. Uno amato dalla tifoseria. Uno che ha alle spalle una storia calcistica di tutto rispetto e adatto anche per fare il presidente del club. Uno buono per far rientrare in Italia soldi sporchi dall’Ungheria per essere ripuliti. Il tentativo di scalata, però, dura poco. È una fiammata. La magistratura scopre la provenienza illecita dei capitali promessi da Giorgione. L’affare salta. Lotito non vende la Lazio e Chinaglia, accusato di riciclaggio, comincia la vita da latitante negli Usa.

Ma la mafia può servire anche da volano per far decollare le carriere. Le amicizie giuste sono chiavi in grado di aprire anche le porte più ermetiche e blindate. Il boss ci può mettere la buona parola. Come è capitato a Gaetano D’Agostino. L’attuale trequartista del Siena era un giocatore di belle speranze ma non era ancora sbocciato. Il padre, Giuseppe, racconta Daniele Poto nel libro "Le mafie nel pallone", viene raccomandato dai fratelli Graviano a Marcello Dell’Utri. L’ex senatore avrebbe dovuto spingere il giovane D’Agostino verso il Milan. Il giocatore fa un provino con i rossoneri ma non viene tesserato. D’Agostino in serie A ci arriva lo stesso. Probabilmente senza l’aiuto dei boss. E vince anche lo scudetto nella Roma di Capello.

Anche Giuseppe Sculli ha avuto le sue grane. L’attaccante della Lazio la ’ndrangheta la conosce bene. Ce l’ha in casa. Suo nonno è il boss Giuseppe Morabito detto “U Tiradrittu”. Secondo i magistrati di Reggio Calabria, Sculli era noto come “il giocatore d’onore”: non un nome qualsiasi. Nel 2005 la mezza punta calabrese era finita sotto la lente d’ingrandimento della giustizia. I Pm guidati da Nicola Gratteri lo accusavano di associazione per delinquere finalizzata al voto di scambio, mutato poi nell’accusa di minacce e frode sportiva. Sostenevano i Ros che il giocatore “è perfettamente integrato nella realtà criminale della propria area”. Tutto, però, finì in un nulla di fatto. Nel 2007 il reato cadde in prescrizione. E il Gup dichiara il “non luogo a procedere”. Sipario.