Ranieri, il perdente di successo e le vittorie "one shot"
CalcioIl tecnico romano, pur avendo allenato alcuni fra i più grandi club europei, ha vinto ben poco. Ma non sbaglia le partite singole che fanno parlare i tifosi: al Bernabeu, i derby di Roma e di Milano. Ecco perché Conte, in vista di Juve-Inter, deve temerlo
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di Lorenzo Longhi
Chi, fra qualche anno, scorrerà il curriculum di Claudio Ranieri, potrà notare come, a dispetto dell’avere allenato alcuni dei più importanti club d’Europa, il suo raccolto sia stato misero. Perdente di successo, quello che nella fase uno della sua carriera di allenatore ha mostrato il meglio del suo calcio, quindi nella fase due ha scoperto l’Europa dove ha contribuito alla semina per i successi di altri (al Valencia e al Chelsea), quindi ha sperato, nella fase tre, di cominciare a trionfare per diventare, seguendo il paradigma di Alberto Arbasino, un venerabile maestro. È, quest’ultima, la fase delle grandi panchine italiane, delle prime pagine, delle polemiche verbali. Trofei? Nulla. Ma tante vittorie "one shot", utili quasi solo a far parlare (e godere per un po’) i tifosi.
La fase tre inizia a Parma nel febbraio 2007 quando Ranieri, che ormai è fermo da due anni, viene rimesso in pista da Ghirardi dopo l’esonero di Pioli. I crociati si salvano e, a stagione finita, Ranieri comunica a Ghirardi che nella sua testa c’è altro. Lo vuole il City, lui sceglie la Juve. Dove, secondo la vulgata, preferisce Poulsen a Xabi Alonso, riporta il club in Champions, ottiene vittorie di prestigio (nel ritorno dei bianconeri a San Siro contro l’Inter, al Bernabeu col Real, contro Milan e Roma), non osa mai e ai tifosi piace poco per il suo fatalismo. Poi, al termine della seconda stagione, l’esonero, perché la sua Juventus in crisi rischiava ormai di non qualificarsi per la coppa più importante.
Ranieri non ci mette nemmeno troppo a tornare in pista: la Roma e Spalletti si salutano, ecco l’allenatore testaccino a casa. Vince i due derby del 2009-10, per 37 minuti è virtualmente campione d’Italia ma… ovviamente niente: è solo secondo, con 80 punti. La stagione successiva, ecco una crisi come quella vissuta a Torino, crisi che esplode a Marassi nel febbraio 2011: Genoa-Roma da 0-3 diventa 4-3, lui si dimette e la Sensi promuove Montella. Oggi, della Roma di Ranieri, resta poco, a parte i totem Totti e De Rossi, la sua creatura è stata smontata un pezzo dopo l’altro. Come la Juve, dopo di lui.
Ora l’Inter - benedetto da Mourinho, che quando era nerazzurro lo aveva bollato come "il settantenne che ha vinto solo coppette" - e c’è poco da aggiungere, perché su di lui è stato scritto di tutto. Se è vero che, per Moratti, Ranieri è un punching ball perfetto per evitarsi gran parte delle critiche, va sottolineato che il tecnico a Milano ha replicato in toto la sua fase tre: scelte discutibili, poco coraggio, il sorriso di quello che si accontenta e l’idea che in fondo c’è sempre la partita dopo per rimediare - anche quando è scontato che non accadrà - con il consueto corredo delle vittorie "one shot", come il derby contro il Milan. Ecco perché la Juventus, domenica sera, avrà più di un motivo per temere la vendetta di Ranieri. Per una partita.
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Chi, fra qualche anno, scorrerà il curriculum di Claudio Ranieri, potrà notare come, a dispetto dell’avere allenato alcuni dei più importanti club d’Europa, il suo raccolto sia stato misero. Perdente di successo, quello che nella fase uno della sua carriera di allenatore ha mostrato il meglio del suo calcio, quindi nella fase due ha scoperto l’Europa dove ha contribuito alla semina per i successi di altri (al Valencia e al Chelsea), quindi ha sperato, nella fase tre, di cominciare a trionfare per diventare, seguendo il paradigma di Alberto Arbasino, un venerabile maestro. È, quest’ultima, la fase delle grandi panchine italiane, delle prime pagine, delle polemiche verbali. Trofei? Nulla. Ma tante vittorie "one shot", utili quasi solo a far parlare (e godere per un po’) i tifosi.
La fase tre inizia a Parma nel febbraio 2007 quando Ranieri, che ormai è fermo da due anni, viene rimesso in pista da Ghirardi dopo l’esonero di Pioli. I crociati si salvano e, a stagione finita, Ranieri comunica a Ghirardi che nella sua testa c’è altro. Lo vuole il City, lui sceglie la Juve. Dove, secondo la vulgata, preferisce Poulsen a Xabi Alonso, riporta il club in Champions, ottiene vittorie di prestigio (nel ritorno dei bianconeri a San Siro contro l’Inter, al Bernabeu col Real, contro Milan e Roma), non osa mai e ai tifosi piace poco per il suo fatalismo. Poi, al termine della seconda stagione, l’esonero, perché la sua Juventus in crisi rischiava ormai di non qualificarsi per la coppa più importante.
Ranieri non ci mette nemmeno troppo a tornare in pista: la Roma e Spalletti si salutano, ecco l’allenatore testaccino a casa. Vince i due derby del 2009-10, per 37 minuti è virtualmente campione d’Italia ma… ovviamente niente: è solo secondo, con 80 punti. La stagione successiva, ecco una crisi come quella vissuta a Torino, crisi che esplode a Marassi nel febbraio 2011: Genoa-Roma da 0-3 diventa 4-3, lui si dimette e la Sensi promuove Montella. Oggi, della Roma di Ranieri, resta poco, a parte i totem Totti e De Rossi, la sua creatura è stata smontata un pezzo dopo l’altro. Come la Juve, dopo di lui.
Ora l’Inter - benedetto da Mourinho, che quando era nerazzurro lo aveva bollato come "il settantenne che ha vinto solo coppette" - e c’è poco da aggiungere, perché su di lui è stato scritto di tutto. Se è vero che, per Moratti, Ranieri è un punching ball perfetto per evitarsi gran parte delle critiche, va sottolineato che il tecnico a Milano ha replicato in toto la sua fase tre: scelte discutibili, poco coraggio, il sorriso di quello che si accontenta e l’idea che in fondo c’è sempre la partita dopo per rimediare - anche quando è scontato che non accadrà - con il consueto corredo delle vittorie "one shot", come il derby contro il Milan. Ecco perché la Juventus, domenica sera, avrà più di un motivo per temere la vendetta di Ranieri. Per una partita.