Gigi, l'artista che fece barba e capelli al conformismo
CalcioIL RACCONTO DI PORRA'. Sono passati 45 anni da quel 15 ottobre 1967 quando il giovane Meroni, la "farfalla granata", scomparve a 24 anni investito da un'auto. Impossibile dimenticarsi delle sue giocate, del suo look, delle sue romantiche inquietudini
di GIORGIO PORRA'
Erano le 21.30 del 15 ottobre del 1967. Una domenica sera malinconica, fredda, sporca di pioggia. Alla tv era appena finita la prima puntata di “Caravaggio, genio e sregolatezza dell’artista secentesco” con Gian Maria Volonté, l’attore più rivoluzionario della sua generazione. E sull’asfalto di Corso Umberto, a Torino, giaceva il corpo di un altro non allineato, un artista di 24 anni che aveva sedotto il suo tempo, il suo mondo, persino l’Avvocato bianconero, con l’infinito repertorio delle sue romantiche inquietudini.
Gigi Meroni volò via così, investito da un’auto guidata da un suo fan, che decenni dopo sarebbe diventato il presidente del Toro, il suo club, sempre in bilico tra estasi e dannazione. “Morì per un dribbling mal riuscito, lui, che col suo dribbling faceva dribblare tutta la gente del popolo, cercò di dribblare una automobile nella città dell’automobile, ne fu travolto”. Impossibile dimenticarsi di lui. Di tutti quei palloni dolcemente tagliati con l’esterno. Di tutte quelle finte morbide come una figura di tango. Di quei calzettoni portati alla cacaiola, come Sivori, l’unico suo idolo. Impossibile sottrarsi all’impellenza di tratteggiarne la dimensione a chi di lui sa poco o nulla. Sarà che giocate come le sue restano finezze rare, sarà per l’indomabile struggimento procurato da quel volto da “Cristo” del Mantegna, sarà per quella vita breve, brevissima, spesa ad inseguire la libertà sull’erba. Sarà per tutto questo, e per la consapevolezza che oggi un Meroni non esiste, e se ci fosse il “sistema” lo espellerebbe alla prima stravaganza vagamente intellettuale, ma c’è davvero qualcosa di sorprendente nella necessità diffusa di riaccarezzarne di continuo la memoria. L’epitaffio breriano fu: "A Gigi Meroni, estri bizzarri e libertà sociali in un paese di quasi tutti conformisti sornioni”.
Il “capellone” Meroni fu l’icona italiana della “beat generation”. Un bohémien che detestava i bigotti, gli integralisti, i benpensanti, la critica preconcetta. Ma non era un contestatore, non saliva sulle barricate, non rilasciava interviste imbottite di invettive. A suo modo rottamava, ma senza strepiti, evitando di atteggiarsi a nuovo profeta. Era soprattutto un professionista esemplare, non saltava un allenamento, non ciondolava per locali sino a notte fonda. Si applicava con rigore su quel fisico fragile solo in apparenza. Su quei fondamentali da funambolo sudamericano. E rivendicava, con forza, in ogni circostanza, un diritto che considerava sacrosanto anche per un calciatore. Il diritto di pensare. “Non esistono le regole – sosteneva convinto – Io mi comporto così perché sono così. Anelo alla libertà assoluta e questi capelli, questa barba, sono uno dei segni di libertà. Può darsi che un giorno cambierò, quando la mia libertà sarà un’altra”.
Meroni era fatto così, sfuggiva ogni tipo di omologazione, il gusto di massa, la plastica della dichiarazione precotta. Nutriva la sua fantasia di molteplici passioni. Per gli abiti, s’inventò un personalissimo stile, da quinto Beatle, per le auto, aveva fatto restaurare una Balilla del ’35 in vista del viaggio di nozze con la sua Kristiane, la ragazza del luna park, per la pittura, nella sua mansarda riempiva di colore tele su tele, rifiutandosi di esporle:"Tra dieci anni nessuno si ricorderà di me come calciatore ed allora farò la personale”. Quella era la sua “normalità”, la stessa che in troppi vivevano come attentato alla stabilità del movimento. Una volta, in trasferta con la Nazionale, scatenò l’orrore della prima firma di un importante quotidiano:"E’ possibile che i dirigenti che hanno viaggiato con la squadra non se la sentano di battere una mano sulle esili spalle del ragazzo e invitarlo a truccarsi in maniera meno pagliaccesca? E poi ci lamentiamo se all’estero la Nazionale è invisa a tutti. Povera maglia azzurra, come sei ridotta!”.
La colpa di Meroni? Quella per cui venne etichettato come “squallido personaggio”? Lo “scandaloso” look: barba lunga e basette corpose, occhialoni neri sulla punta del naso, camicia rosa e cravatta senza nodo…Il giorno del funerale in sessantamila piansero sul suo feretro. “Sulla fresca tomba di Meroni hanno fatto colare fiumi di retorica – scrisse a caldo un indignato Giorgio Tosatti – di questo ragazzo timido, che aveva difeso con una maschera estrosa la sua sensibilità dalla violenza di un ambiente feroce, hanno fatto un personaggio quasi fumettistico. Pochi lo hanno apprezzato in vita e risparmiato in morte, il pianto sincero di chi gli voleva bene si è mischiato a quello professionale delle coefore. Hanno cercato a tutti i costi di affibbiargli una etichetta, a lui che voleva sfuggire proprio da un troppo facile incasellamento sociale”.
Meroni non riuscì mai a vincere un derby. Nestor Combin, l’argentino, uno dei suoi compagni più fedeli, se ne ricordò la domenica successiva proprio davanti alla Juve. Gli bastarono due minuti per scaraventare alle spalle di Colombo il primo dei tre palloni con cui diventò protagonista di quella sfida surreale. Il quarto gol lo firmò Carelli, un ragazzino, con il 7 sulle spalle, il numero di Meroni. Una rete gonfia di rabbia, di sgomento. Carelli partì da metà campo, saltò Sarti, resistette ad altri assalti, affrontò e superò Salvadore, riuscì a mantenersi in equilibrio nonostante una spinta dell’avversario, scaricò in porta tutta l’angoscia trattenuta del popolo granata. La Maratona venne giù, con la violenza di un uragano. La risposta più intensa, più commovente, a quella che era stata una delle domande preferite di Gigi:”Ma a voi non piace vivere?”.
Erano le 21.30 del 15 ottobre del 1967. Una domenica sera malinconica, fredda, sporca di pioggia. Alla tv era appena finita la prima puntata di “Caravaggio, genio e sregolatezza dell’artista secentesco” con Gian Maria Volonté, l’attore più rivoluzionario della sua generazione. E sull’asfalto di Corso Umberto, a Torino, giaceva il corpo di un altro non allineato, un artista di 24 anni che aveva sedotto il suo tempo, il suo mondo, persino l’Avvocato bianconero, con l’infinito repertorio delle sue romantiche inquietudini.
Gigi Meroni volò via così, investito da un’auto guidata da un suo fan, che decenni dopo sarebbe diventato il presidente del Toro, il suo club, sempre in bilico tra estasi e dannazione. “Morì per un dribbling mal riuscito, lui, che col suo dribbling faceva dribblare tutta la gente del popolo, cercò di dribblare una automobile nella città dell’automobile, ne fu travolto”. Impossibile dimenticarsi di lui. Di tutti quei palloni dolcemente tagliati con l’esterno. Di tutte quelle finte morbide come una figura di tango. Di quei calzettoni portati alla cacaiola, come Sivori, l’unico suo idolo. Impossibile sottrarsi all’impellenza di tratteggiarne la dimensione a chi di lui sa poco o nulla. Sarà che giocate come le sue restano finezze rare, sarà per l’indomabile struggimento procurato da quel volto da “Cristo” del Mantegna, sarà per quella vita breve, brevissima, spesa ad inseguire la libertà sull’erba. Sarà per tutto questo, e per la consapevolezza che oggi un Meroni non esiste, e se ci fosse il “sistema” lo espellerebbe alla prima stravaganza vagamente intellettuale, ma c’è davvero qualcosa di sorprendente nella necessità diffusa di riaccarezzarne di continuo la memoria. L’epitaffio breriano fu: "A Gigi Meroni, estri bizzarri e libertà sociali in un paese di quasi tutti conformisti sornioni”.
Il “capellone” Meroni fu l’icona italiana della “beat generation”. Un bohémien che detestava i bigotti, gli integralisti, i benpensanti, la critica preconcetta. Ma non era un contestatore, non saliva sulle barricate, non rilasciava interviste imbottite di invettive. A suo modo rottamava, ma senza strepiti, evitando di atteggiarsi a nuovo profeta. Era soprattutto un professionista esemplare, non saltava un allenamento, non ciondolava per locali sino a notte fonda. Si applicava con rigore su quel fisico fragile solo in apparenza. Su quei fondamentali da funambolo sudamericano. E rivendicava, con forza, in ogni circostanza, un diritto che considerava sacrosanto anche per un calciatore. Il diritto di pensare. “Non esistono le regole – sosteneva convinto – Io mi comporto così perché sono così. Anelo alla libertà assoluta e questi capelli, questa barba, sono uno dei segni di libertà. Può darsi che un giorno cambierò, quando la mia libertà sarà un’altra”.
Meroni era fatto così, sfuggiva ogni tipo di omologazione, il gusto di massa, la plastica della dichiarazione precotta. Nutriva la sua fantasia di molteplici passioni. Per gli abiti, s’inventò un personalissimo stile, da quinto Beatle, per le auto, aveva fatto restaurare una Balilla del ’35 in vista del viaggio di nozze con la sua Kristiane, la ragazza del luna park, per la pittura, nella sua mansarda riempiva di colore tele su tele, rifiutandosi di esporle:"Tra dieci anni nessuno si ricorderà di me come calciatore ed allora farò la personale”. Quella era la sua “normalità”, la stessa che in troppi vivevano come attentato alla stabilità del movimento. Una volta, in trasferta con la Nazionale, scatenò l’orrore della prima firma di un importante quotidiano:"E’ possibile che i dirigenti che hanno viaggiato con la squadra non se la sentano di battere una mano sulle esili spalle del ragazzo e invitarlo a truccarsi in maniera meno pagliaccesca? E poi ci lamentiamo se all’estero la Nazionale è invisa a tutti. Povera maglia azzurra, come sei ridotta!”.
La colpa di Meroni? Quella per cui venne etichettato come “squallido personaggio”? Lo “scandaloso” look: barba lunga e basette corpose, occhialoni neri sulla punta del naso, camicia rosa e cravatta senza nodo…Il giorno del funerale in sessantamila piansero sul suo feretro. “Sulla fresca tomba di Meroni hanno fatto colare fiumi di retorica – scrisse a caldo un indignato Giorgio Tosatti – di questo ragazzo timido, che aveva difeso con una maschera estrosa la sua sensibilità dalla violenza di un ambiente feroce, hanno fatto un personaggio quasi fumettistico. Pochi lo hanno apprezzato in vita e risparmiato in morte, il pianto sincero di chi gli voleva bene si è mischiato a quello professionale delle coefore. Hanno cercato a tutti i costi di affibbiargli una etichetta, a lui che voleva sfuggire proprio da un troppo facile incasellamento sociale”.
Meroni non riuscì mai a vincere un derby. Nestor Combin, l’argentino, uno dei suoi compagni più fedeli, se ne ricordò la domenica successiva proprio davanti alla Juve. Gli bastarono due minuti per scaraventare alle spalle di Colombo il primo dei tre palloni con cui diventò protagonista di quella sfida surreale. Il quarto gol lo firmò Carelli, un ragazzino, con il 7 sulle spalle, il numero di Meroni. Una rete gonfia di rabbia, di sgomento. Carelli partì da metà campo, saltò Sarti, resistette ad altri assalti, affrontò e superò Salvadore, riuscì a mantenersi in equilibrio nonostante una spinta dell’avversario, scaricò in porta tutta l’angoscia trattenuta del popolo granata. La Maratona venne giù, con la violenza di un uragano. La risposta più intensa, più commovente, a quella che era stata una delle domande preferite di Gigi:”Ma a voi non piace vivere?”.