Operai del gol: che lavoro facevano prima di diventare calciatori?

Calcio

Vanni Spinella

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Dalla favola di Geppetto Torricelli a quella di Nalini, che insaccava wurstel: ma ci sono anche Zanetti muratore, Bacca pescatore, Icardi parcheggiatore... Tutti in un'altra vita, naturalmente

Francesco Totti non ha mai nascosto il suo sogno di bambino: lavorare nel campo della distribuzione dei prodotti petroliferi. Un mestiere che, per come la vedeva lui, lo avrebbe reso sicuramente ricco sfondato. Petroliere? No, benzinaio. «Da piccolo vedevo sempre i benzinai con quei portafogli pieni di soldi, e pensavo fossero loro», raccontò a una platea di bambini che lo interrogava sul “come si fa a diventare calciatori”. «E poi mi piace l’odore della benzina…». A vedere come sono andate le cose, forse è stato meglio così: la storia del calcio ci avrebbe rimesso parecchio. Poi però ci sono quelli che sul serio hanno intrapreso i lavori più disparati prima di cominciare a inseguire un pallone facendone una professione. A loro il famigerato coro “Andate a lavorare” – che prima o poi nella vita tocca a qualsiasi giocatore – non suona come un’offesa. Ci sono andati veramente, “a lavorare”, nella loro vita precedente.

"Finalmente un distributore!"

C'è da spostare una macchina

Prendete Mauro Icardi, ad esempio: le belle macchine gli sono sempre piaciute, fin da bambino. Tanto che, da piccolo, probabilmente era quello il settore in cui si vedeva. «Ho iniziato a lavorare molto presto», ha raccontato nella sua autobiografia. «D’estate, la sera, con i figli del mio primo allenatore andavo a fare il parcheggiatore nei pub, ristoranti e discoteche che si affacciavano sulla costa lungo il fiume. Avevo sette anni». Maurito aiutava i clienti dei locali a sistemare le auto in cambio di pochi pesos (ma “i più pidocchiosi mi liquidavano con un grazie!”), “Vieni, vieni, vieni, buenooo, ok, stooop” fino alle due del mattino.

C’era da aiutare una famiglia, e allora ogni tanto si improvvisava anche pasticcere, aiutando la mamma a preparare gli alfajores, biscottini tondi con ripieno di marmellata o cioccolato spolverati di cocco, tipici della tradizione sudamericana. Poi, insieme, li vendevano porta a porta nel quartiere. «Poteva anche capitare che mia mamma ricevesse un ordine per i suoi biscotti e, in quei casi, a cinque anni ero già così autonomo da poter fare le consegne da solo». Insomma, fattorino a 5 anni, parcheggiatore a 7, capitano dell’Inter a 22. Un mostro di precocità.

Gli piace così tanto parcheggiarle che ogni tanto se ne compra una nuova

Scossa Lavezzi, Zanetti tractor

L’abitudine a dare una mano in famiglia, e poi con il calcio si vedrà, emerge anche dai racconti d’infanzia argentina del Pocho Lavezzi, elettricista per qualche mese al fianco del fratello, quando aveva 16 anni: era reduce da un provino in Italia (alla Fermana) andato male, al rientro in patria stava per mollare per la delusione e fu proprio il fratello a convincerlo del fatto che gli impianti elettrici non facessero per lui e che di fulminante, invece, avesse scatto e tiro. Storia simile a quella di Javier Zanetti: il sogno di giocare nell’Independiente, la sua squadra del cuore, un provino andato male (“troppo gracile”), il rientro in famiglia dove papà è pronto a insegnargli il mestiere, quello di muratore. Trasportava mattoni (poi tanto gracile non era, allora) e preparava l'impasto per la calce. Forse è così che divenne El Tractor. A proposito di soprannomi: è solo leggenda quella che voleva Julio Ricardo Cruz “giardiniere”. «Io non ne capisco niente di giardinaggio – raccontò – né io, né nessuno della mia famiglia abbiamo fatto un mestiere di questo tipo. Però quando avevo 17 anni, quando ho iniziato al Banfield, sono salito su un trattore per scherzare e un giornalista mi ha visto. E siccome in Argentina siamo abituati ad avere dei soprannomi, ti chiamano Cabezon, Flaco… Io sono diventato El Jardinero».

Non scherzava, invece, Carlos Bacca in Colombia, quando, ventenne, si alzava tutti i giorni all’alba per aiutare il padre a pescare e poi a vendere il pesce al mercato di Barranquilla. Al pomeriggio lo ritrovavi invece sugli autobus della città, a fare il controllore, secondo lavoro necessario per assicurare alla famiglia un’entrata in più.

E poi Vardy, "Dal nulla"

La favola più incredibile degli ultimi anni viene però dall’Inghilterra, ed è quella di Jamie Vardy, svelata al mondo quando diventò campione con il Leicester con un’autobiografia intitolata “Dal nulla”. Fino a pochi anni prima, infatti, giocava nelle serie minori e per mantenersi faceva il metalmeccanico in una fabbrica di Sheffield: «Era massacrante: sollevavo centinaia di pesi e il calore dei forni mi bruciava la pelle», anche se a scottarlo veramente – per mesi non ne volle sapere di toccare un pallone – era stata la delusione provata quando lo Sheffield Wednesday l’aveva scartato a un provino. «Bocciato perché troppo basso, il bello è che dopo quel provino crebbi 20 cm in un mese di colpo». E a furia di crescere è arrivato fino alla nazionale.

Gli operai del gol

Anche in Italia abbiamo storie fantastiche di giocatori-operai saltati fuori quasi per magia – o forse si chiama tenacia – dalle serie minori, dove giocavano con il classico rimborso spese, costretti poi a mantenersi lavorando durante il giorno. L’ultimo caso è quello di Andrea Nalini, attaccante portato in Serie A dal Crotone nel 2016. Solo due anni prima calcava i campi della serie D con la Virtus Vecomp Verona, dove il presidente gli trova anche un impiego per mantenersi. Prima saldatore, «poi in un’azienda che produceva würstel, mi occupavo dell’insaccamento e del magazzino. Non è stato facile, lavoravo otto ore con le scarpe infortunistiche e poi non riuscivo ad allenarmi regolarmente anche perché avevo anche turni di notte. Spesso il sabato lavoravo mezza giornata e poi mi aggregavo alla squadra prima della partenza per la trasferta. In quel periodo non ci credevo molto alla chance di fare il calciatore, ma non ho mai mollato... »

Appartengono alla categoria degli “operai del gol”, umili lavoratori di provincia con uno straordinario fiuto per la rete (non quella da pesca), anche il carpentiere Dario Hubner, bomber di Cesena, Piacenza e Brescia che montò infissi per una vita prima di riscoprirsi calciatore (e persino capocannoniere della Serie A, a 35 anni, nel 2002); il muratore Christian Riganò, che fino ai 26 anni si alzava all’alba e passava le giornate a preparare la malta sotto al sole; il tappezziere Riccardo Zampagna, arrivato in A a 30 anni dopo una scalata dalle serie minori iniziata dall’Eccellenza umbra: «Guadagnavo 800 mila lire al mese come lavorante nella tappezzeria di Giampiero Riciutelli e altrettanti me ne dava il presidente dell’Amerina. Ero contento così. Mi sentivo appagato. Finché nell’ultimo campionato di Prima Categoria, nel 95-96, segnai un sacco di gol, 23 o 24 non ricordo bene, e mi proposero di passare nel Cnd, a Pontevecchio, alle porte di Perugia. Si imponeva una scelta: lavorare solo al mattino per andare ad allenarmi al pomeriggio. Ne parlai col proprietario della tappezzeria e lui mi disse: “Prova, se te la senti”. Crescevo di categoria ma ci rimettevo economicamente, 100 mila lire al mese in meno come calciatore e gli spostamenti in auto a mie spese. Ma ero contento perché anche quella poteva essere l’occasione giusta. Realizzai 13 reti in 22 partite: esperimento riuscito».

La favola di Geppetto Torricelli

Il copione è sempre lo stesso, per tutti: una (prima) vita di sacrifici e sudore in attesa che qualcuno si accorga di te, immettendoti sulla strada giusta. Lì dove inizia una seconda vita, sempre di sacrifici e sudore, se sai essere un vero professionista. L’ha recitato anche Moreno Torricelli, dal mobilificio in cui lavorava come falegname alla conquista della Champions League, parabola difficilmente replicabile, soprattutto con i suoi modi, il suo senso del dovere, la sua etica del lavoro. Lo scoprì Trapattoni durante un’amichevole tra la Caratese e la sua Juventus, lo portò in bianconero dove Roberto Baggio scherzando lo soprannominò subito Geppetto. Ricordando sempre da dove veniva, Torricelli lavorava lavorava lavorava, su e giù per la fascia senza stancarsi mai. Ogni tanto segava anche qualche gamba, ma solo per deformazione professionale.