LA GIOVANE ITALIA. In Serie A ha giocato con Brescia, Samp e Toro. Ha dovuto rinunciare per infortunio alla Coppa del Mondo del 2006 vinta dagli azzurri. A 38 anni è arrivata la prima panchina in Lega Pro con i Leoni del Garda: "In testa ho sempre le parole di Carletto Mazzone"
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Una volta Franco Scoglio disse: “Io non sono un allenatore ma uno che fa didattica”. Da allora sono passati un po’ di anni e la didattica del Professore, intesa come educazione allo sport e al calcio, ha ceduto il passo a quella ossessione per la tattica che ha sottratto romanticismo al pallone. Ce ne siamo fatti ormai una ragione, certo, ma per fortuna oggi c’è un manipolo di giovani allenatori di Lega Pro che, grazie a precedenti esperienze nei settori giovanili, l’idea di calcio come insegnamento l’hanno prima messa in pratica con i loro ragazzi e poi se la sono portata in prima squadra. Tra questi Aimo Diana, passato importante da calciatore in Serie A e presente alla guida della Feralpisalò.
Dalla Beretti alla prima squadra. Come procede la tua nuova avventura?
"Bene, sono soddisfatto. A novembre ho avuto questo incarico e risultati per il momento ci stanno dando ragione. L’esperienza delle giovanili è stata una palestra fondamentale. Lì ho imparato, lì ho potuto sbagliare, lì sono diventato un allenatore".
Si parla sempre della necessità di dare spazio ai giovani. Ma dalla teoria alla pratica, in campo alla fine di giovani ce ne sono sempre pochini. Tu come ti comporti?
"Io sono uno di quelli che sa bene cosa vuol dire crescere un giocatore. E sono consapevole di quanto sia importante provare a dare spazio a quelli bravi. D’altra parte, però, chi è in panchina si scontra ogni giorno con una realtà che non sempre va in quella direzione. Le società chiedono risultati immediati e allora ci si affida soprattutto all’esperienza. L’esperienza è importantissima, sia chiaro, ma lo sarebbe anche sperimentare".
In che modo?
"Credo sia venuto il momento di far nascere “squadre B”, fatte di giovani da cui poter attingere in prima squadra al momento più opportuno. Il modello spagnolo è un esempio da seguire. Si sente dire che la Lega Pro potrebbe avviare una riforma di questo tipo, io me lo auguro".
Che allenatore sei?
"Uno che lavora tanto sull’aspetto tecnico e tattico, ma chi non lo fa oggi? Anche in Promozione gli allenatori studiano molto questi aspetti. Dai ragazzi di 18-20 anni che si affacciano in prima squadra ci si aspetta sempre una preparazione tecnica adatta al ‘grande salto’ e io nelle giovanili ho cercato di dare ai miei questi strumenti. Lo faccio anche ora, puntando molto anche sulla gestione del gruppo. Ecco, questo lo considero un aspetto decisivo".
Il bello e il brutto di stare in panchina?
"Che ci crediate o no, mi emoziona molto di più allenare che giocare. Mi spiego: il calciatore dà quello che deve dare nelle sue ore quotidiane di allenamento e poi è libero. L’allenatore non si ferma mai. Lo studio, le scelte, l’obiettivo da raggiungere sono solo alcuni aspetti di un lavoro che ti porti a casa. E quando il risultato arriva la soddisfazione annulla la fatica. Il brutto? C’è ansia. La pressione che ti arriva addosso non fa bene. In Italia ci sono club che cambiano 3-4 allenatori a stagione, spesso aggravando la situazione che aveva scatenato il primo esonero. E’ sbagliato, non aiuta. Ma la situazione è questa e solo chi ha in dotazione un grande equilibrio e un grande staff la spunta".
Altrimenti si rischia una fuga di panchine all’estero…
“Ma quello non è un problema. E’ la conseguenza del fatto che ci sono sempre più allenatori e meno squadre. E allora molti vanno all’estero e spesso ad Est, magari senza guadagnare titoloni sui giornali ma comunque portando a casa risultati che rafforzano il valore della scuola italiana”.
Oltre a far bene con la Feralpisalò, qual è il tuo grande obiettivo?
“Da calciatore ho saltato per un infortunio un Mondiale, un Mondiale che poi l’Italia nel 2006 ha vinto. Ecco, con bel carico di ambizione vorrei un giorno arrivare a vivermi quel sogno da commissario tecnico. Bisogna crederci e, come mi diceva Mazzone, occorre dare sempre il massimo per stare sereni con la propria coscienza. Perché solo così prima o poi i risultati arriveranno. E io faccio esattamente come mi ha detto lui”.
Non ti sei mai stancato del calcio?
“Sì, caspita. E' successo e per tre mesi sono stato fermo. Giocavo a tennis, stavo un po' di più con la famiglia e provavo a fare finta che era tutto normale. Ma non lo era, e allora ho cominciato ad allenare…”.