Fabio Grosso è nato a Roma il 28 novembre del 1977 e oggi, dunque, compie 40 anni. Eroe del Mondiale vinto dall'Italia nel 2006 in Germania, adesso allenatore del Bari capolista della Serie B. Dal gol ai tedeschi al rigore di Berlino, riviviamo quelle imprese, non senza un pizzico di nostaglia...
Non ci costerebbe nulla raccontare per la miliardesima volta del no-look di Pirlo, ricordare - non senza una certa crudeltà - la bambina tedesca che piange al Westfalenstadion dopo il raddoppio di Del Piero, la festa degli emigranti italiani a Dortmund, pompare di retorica un'estate di fontane, di birre, di popopopopo, di "dov'eri al gol di Grosso?" o quando il numero 3 calciò l'ultimo rigore; vivisezionare il suo volto, provando a decifrare cosa volessero significare quegli occhi al cielo prima del fatidico tiro dal dischetto; e ancora la "goduria" nel vedere il portiere francese Barthez bianco come un morto, con le spalle schiantate sul palo in segno di resa; la commovente dedica di Materazzi alla mamma e la testata di Zidane per sua sorella...; il goffo balletto di Buffon; Totti con il tricolore a mo' di befana; Gattuso che acchiappa Lippi e gli dice "se te ne vai ti ammazzo"; Capitan Cannavaro che sale su, su, e a petto in fuori solleva la Coppa dei Sogni. Tutto perfetto, ma...
Un grasso, Grosso derby
Ma lo facciamo con un velo di tristezza, un misto di rabbia, impotenza, malinconia, nostalgia, frustrazione, rassegnazione. Fabio Grosso compie 40 anni e noi - in realtà - ripensiamo alla Svezia, al fatto di non essere stati capaci di segnare un gol a quei falegnami... Che non andremo ai Mondiali e a giugno tiferemo per l'Islanda o per la nazionale africana "simpatica" di turno. Ma, se l'Italia del calcio - e non solo - è rimasta ferma alla notte di Berlino, Grosso no: domenica ha vinto il derby pugliese, come piace a lui, all'ultimo respiro, e "la Bari" comanda il campionato di B sognando di tornare presto in Serie A. Il neo quarantenne Fabio vorrà essere ricordato anche per qualcos'altro, nella vita.
Grosso chi?
L'epica sportiva abbonda di eroi che hanno vissuto - campato - di rendita per il gesto che li ha consegnati alla leggenda, che li ha consacrati: tanti di loro ne sono stati sopraffatti, imprigionati. Ma Grosso non ha alcuna intenzione di finire nella gallery-horror dei "che fine hanno fatto", sebbene mantenga sempre l'aria un po' incredula di quello che è lì chissà perché, a Berlino come a Bari, perché non era un predestinato da calciatore, e da tecnico aveva allenato soltanto la Primavera della Juventus (conquistando peraltro un Torneo di Viareggio) accolto nello scetticismo generale a giugno quando il club decise di affidargli la panchina, in una piazza così blasonata, e affamata di grande calcio come Bari.
Fabio il canguro
Anche nel 2006, appena inserito da Marcello Lippi nella lista dei 23, in molti storsero il naso. Finché il ct non sposterà di fascia Zambrotta, tornato a destra come ai tempi proprio del Bari, pur di farlo giocare: ce ne accorgemmo il 26 giugno, quando Fabio si procurò il rigore con l'Australia in stile "sabbione" (il gioco da bambino sulla spiaggia di Pescara) e che Totti festeggerà col cuccio, evitandoci i tempi supplementari in 10 uomini e portandoci direttamente ai quarti. E poi ancora in finale con il sinistro a giro nella porta di Jens Lehmann e quel "non ci credo, non ci credo" che ai più anzianotti riportò subito alla mente la corsa e l'urlo di Tardelli al Bernabeu.
Dalla C al rigore Mondiale
Grosso che era già stato ceduto all'Inter (con cui vincerà lo scudetto), ma che di fatto era uno dei 5 giocatori del Palermo scelti da Lippi per la spedizione insieme a Toni, Barone, Zaccardo e Barzagli. Il Palermo di Guidolin che si spinse fino alla Coppa Uefa, che a sua volta lo aveva acquistato da un'altra squadra dei miracoli, il Perugia di Serse Cosmi. Fu il suo "secondo" Palazzi a trasformarlo in esterno da "10" che era al Chieti. Già: Grosso non tirava un rigore dal 27 maggio 2001, era un Prato-Chieti 1-1 dei playoff, al termine dei quali i teatini neroverdi sarebbero stati promossi in C1. Sono due esecuzioni identiche: forti e angolati verso destra, diretti all'incrocio. Dallo stadio "Lungobisenzio" di Prato, a casa di Pablito Rossi, in una linea ideale verso l'Olympiastadion di Berlino: Campioni del mondo dopo 24 anni dall'ultima volta.
Andiamo a Berlino
L'entusiasmo irrefrenabile, contagioso di Fabio Caressa e Beppe Bergomi nel raccontarci la semifinale di Dortmund rimbomberà per sempre nei nostri cuori, ma 11 anni dopo a Berlino ci siamo andati ancora... e non sembra esserci rimasto granchè di quella impresa. All'Olympiastadion hanno pensato bene di spazzare via quella notte, in cui i tedeschi furono costretti a premiare in casa loro il peggiore del nemici, non lasciando praticamente traccia di azzurro. Non abbiamo trovato una cartolina, un'immagine che fosse una nel museo all'entrata dell'impianto (ma la locandina della finale di Champions persa dalla Juve nel 2015 è in bella mostra, altroché); non pretendevamo certo un'incisione al fianco di Jesse Owens o un busto di bronzo a grandezza naturale di Grosso, ma almeno targhetta, "qui, il 9 luglio del 2006...".
Viva l'Italia
E invece l'unico "superstite" del 9 luglio è l'orso all'entrata, la mascotte dei Mondiali. E il povero orsacchiotto sembra non poterne più dei turisti italiani (noi compresi) e dei nostri selfie con le 4 dita della mano a indicare il numero dei Mondiali nel palmarès, che nel frattempo i tedeschi hanno eguagliato e in Russia promettono di superare, senza trovare la nostra resistenza...