Mané Garrincha, dopo due Mondiali vinti nel 1958 e 1962, nel 1970 arriva a Roma. Da qui parte il romanzo scritto da Jvan Sica che racconta gli anni di Garincia, alla romana, tra le partitelle in periferia e le sofferenze della vita
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Un detto in Brasile dice che quando nomini Pelè ti togli il cappello, quando parli di Garrincha, ti scende una lacrima. Davanti a Pelè si riconosce la sua grandezza, pensando a Mané non puoi che ricordare quello che è stato e quello che si è perso. Il libro scritto da Jvan Sica, Garincia (Edizioni Incontropiede) parla proprio dell’imprevedibilità e grandezza umana di questo campione in un suo momento di vita molto particolare.
Mané Garrincha era una ragazzo cresciuto nella periferia di Rio de Janeiro, a Pau Grande, dove la città si trasformava in giungla. Giocava a calcio anche se tutti gli avevano detto che non poteva farlo, perché aveva enormi problemi fisici dovuti alla poliomelite, tra cui una gamba più corta dell’altra di sei centimetri. Nonostante fosse praticamente zoppo (al suo primo provino per una squadra professionistica lo chiamavano “lo storpio”) divenne un calciatore incredibile, vinse due Mondiali nel 1958 e 1962 e fu la “gioia del popolo” del Botafogo e dell’intero Brasile.
Mané Garrincha era uno dei più grandi calciatori della storia, ma nel 1970, anno in cui venne a Roma per seguire la compagna di allora, la nota cantante Elza Soares scritturata per vari teatri in Italia, Mané era soprattutto un alcolista, un uomo che stava andando alla deriva, un padre assente e una persona fuori posto.
Da qui inizia il romanzo di Jvan Sica, che racconta gli anni romani di Garrincha, o Garincia come lo chiamavano a Sacrofano e Torvajanica, dove visse in quel periodo, e traccia la storia di questo calciatore ancora immenso, che nelle partite di paese, giocate per guadagnare qualcosa e non far intristire troppo il suo grande amore, il pallone, era capace di segnare due gol da calcio d’angolo, sia d’interno che d’esterno, fare quattro assist in una partita perchè decise di far segnare i compagni, ma anche le vicende di un uomo che vedeva nella bottiglia l’unica possibilità per trovare una folle via d’uscita dai suoi dolori fisici e dell’anima.
Per fortuna però Garrincha non era solo sofferenza, era anche una forza della natura. Per lui tutto era un dono di Dio (un Dio cristiano, ma che veniva anche dai vecchi culti afro-brasiliani dei suoi avi) e tutto doveva essere rispettato (ormai famosa la storia che salutasse i cani randagi per strada). Ma questa sua anima tutta naturale che lo muoveva era anche lo spirito che lo inquietava, perché i tempi della giungla di Pau Grande, quando si giocava fra gli alberi e senza scarpe, non potevano tornare mai più.