Dal papà-procuratore al papà-allenatore: quando pensano di avere in casa un futuro campione si scatenano, e allora scendono in campo. In alcuni casi, letteralmente
Sei forte, papà! Ma certe volte sarebbe meglio se stessi al tuo posto... Soprattutto quando c'è di mezzo lo sport, e allora i grandi si sentono in dovere di dire la loro (o peggio) anche quando non è richiesta. Ecco 5 buoni consigli dedicati a tutti i papà che si improvvisano procuratori/tifosi/allenatori/campioni.
1. Non sostituirsi al figlio
La tentazione è fortissima, specie per chi in gioventù è stato atleta o giocatore (ad alcuni basta una Terza Categoria per sapere tutto) e pensa di sapere come si affrontino le varie situazioni sul campo. Il papà-allenatore è quello che mai e poi mai si sognerebbe di allenare la squadra del figlio, ma che poi vive aggrappato alla recinzione, dietro alla panchina, e telecomanda il ragazzo come se avesse in mano un joystick: “Tira!”, “Saltalo!”, “Passala!” (più raro), “Stendilo!” (si sente anche questa). Quando poi il joystick si scarica o il robo-bambino sembra non rispondere ai comandi c’è un’unica soluzione da adottare: scendere in campo personalmente. Una spinta al bambino-portiere ed ecco come si insegna in modo rapido e più o meno indolore la tecnica del ruolo.
2. Non fare il procuratore
“Mio figlio è un fenomeno” è il titolo di un piacevolissimo libretto di Fabio Benaglia in cui sono narrate storie purtroppo reali di padri che si accorgono di avere in famiglia il nuovo Messi o il nuovo Ronaldo. “Mio figlio si riconosce subito: è il più bravo di tutti”, è il loro motto (frase purtroppo realmente proferita da qualcuno) e così sempre più società e scuole-calcio hanno iniziato a prendere le dovute contromisure, affiggendo sul cancello d’ingresso cartelli come “Se pensate che vostro figlio sia un campione, fateci un favore: portatelo in un’altra squadra”. Figuriamoci quando il figlio è veramente un campione e arriva anche in Serie A, magari alla Juventus. Il caso di Daniele Rugani, poco utilizzato da Allegri a detta del papà Ubaldo, ha movimentato il mondo del calcio (e del mercato) per qualche giorno a fine novembre, quando Rugani-senior si è lasciato andare a un duro sfogo su Facebook nel generoso tentativo (e quale papà non lo farebbe?) di prendere le difese del figlio: "Non c’è bisogno di dire niente, ma tra poco finirà questa storia e ci riprenderemo con gli interessi tutto quello che si merita. Per me resta il miglior difensore italiano", scrisse. Tackle con tempi e modi sbagliati, come gli potrebbe insegnare il figlio.
3. Non sostituirsi all’allenatore
Dialogo reale tra un genitore e un allenatore (attingiamo sempre dal libro di Benaglia):
“Scusi mister, credo che mio figlio sia poco valorizzato”
“Come scusi?”
“Sì, insomma, non mi sembra che abbia lo spazio che merita in questa squadra”
“Ma è il 10 settembre, abbiamo iniziato ad allenarci il 20 agosto. Come fa a dire cose simili? Abbiamo fatto due amichevoli e basta”
“Sono sufficienti per farmi accorgere che qui c’è qualcosa che non va. Tra l’altro mio figlio è una punta e lei me lo mette difensore centrale”
“Se il suo problema è questo, il motivo glielo spiego subito. Suo figlio ha un buon talento, ma all’interno della squadra parla troppo poco, sia in campo che fuori dal campo. Così ho voluto provarlo per un paio di partite al centro della difesa, in un ruolo dove parlare è fondamentale. A 12 anni trovo che sia giusto provare anche ruoli diversi”
“Sì, io rispetto le sue scelte, ci mancherebbe. Io però parlo per il bene di mio figlio e sono una persona diretta. Se c’è qualcosa da dire, la dico, e questo resta un problema da risolvere”
“E secondo lei quale sarebbe la soluzione?”
“Non so, anche cambiare. È un’ipotesi che non mi sento di escludere, anche se immagino il trauma, le problematiche”
“Sono d’accordo, fare cambiare famiglia a un ragazzino di 12 anni sarebbe dura da digerire…”
Il complesso rapporto famiglia-allenatori si porta dietro problematiche antiche come il calcio. Questioni che si possono affrontare con ironia, come nel caso citato, o vomitando rabbia sui social, con il papà di Lautaro Martinez ultimo in ordine di tempo a dare il cattivo esempio, quando twittò a Luciano Spalletti un sibillino, ma neanche tanto, “Continua così e la tua buona sorte finirà” (il tutto preceduto da un colorito insulto). Tweet rimosso poco dopo, quando ormai però era già arrivato alle orecchie dell’allenatore dell’Inter, reo di non aver inserito il “Toro” nella partita di Champions contro il Tottenham preferendogli Keita. In tutto ciò, a rimetterci fu soltanto il figlio, all’oscuro dell’attacco di papà (come spergiurò a Spalletti), che dovette sorbirsi il discorsetto del mister: “Non è un bambino, non c’è bisogno che il papà lo difenda”, disse. E ancora: “È importante che Lautaro si renda conto che suo papà facendo queste dichiarazioni attacca l'Inter, non me. Così crea problemi al figlio, danneggia la sua immagine e il suo rapporto con i compagni di squadra. Per diventare un top player devi saper gestire te stesso e quelli che ti stanno intorno, è giusto che tu ti faccia sentire anche con i familiari”. Un cazziatone travestito da paternale.
4. Non dare il cattivo esempio
Sono notizie che ormai, purtroppo, non fanno più notizia. A meno che non accada qualcosa di eclatante, come nel caso della recente partita tra Affrico e Cattolica Virtus, categoria esordienti nella provincia di Firenze. In campo due squadre di tredicenni intente a fare il loro dovere – divertirsi giocando a pallone –, sugli spalti due tribù di genitori-ultrà che iniziano a insultarsi. Offese reciproche e frasi irripetibili che arrivano alle orecchie dei ragazzi in campo che, distratti e turbati, non riescono a proseguire, e si fermano. Partita sospesa con le due squadre d’accordo nel prendere la decisione più saggia: la gara si rigiocherà, perché non è giusto che a rimetterci siano i ragazzi, ma a porte chiuse. Nel frattempo, i papà saranno invitati a un incontro con degli educatori per meditare sui propri comportamenti. Chiamatelo pure corso di recupero di civiltà.
5. Non rivivere i propri successi attraverso il figlio
Poi c’è chi è stato campione sul serio, e potrebbe veramente far sentire la propria voce con consigli utili. Ma fateci caso: il campione vero non lo fa, dimostrandosi tale anche a fine carriera. Preferisce il silenzio e il rispetto per l’allenatore del figlio, come papà Chiesa (Enrico) quando gli chiedono di Federico o papà Maldini (Paolo) di fronte alla convocazione di Daniel nella Nazionale under18. Ci sono anche i casi di papà campioni che, gentilmente, esprimono un proprio parere, ma poi lasciano che siano i figli a decidere che strada prendere. “Non credo che Justin abbia fatto bene ad andare via dall’Olanda così giovane”, ha rivelato di recente Patrick Kluivert. “Ho sempre detto che sarebbe dovuto rimanere un altro anno o due all’Ajax. Ma come padre devi seguire e rispettare le decisioni di un figlio e così ho fatto. La Roma è stata comunque una buona scelta: ovviamente vorrebbe giocare di più, ma ha 19 anni e non può pretendere più di tanto. Quando gioca si impegna al massimo, gli piace il suo ruolo e questa cosa è già abbastanza”.