"Storie di Matteo Marani": 1940, l'ultimo giorno di pace

L'INCHIESTA

L'appuntamento con il programma di inchiesta e approfondimento storico in questa occasione indaga quel 9 giugno 1940 e i cinque anni bellici che ne seguirono. In quella domenica, lo sport ebbe uno spazio notevole, sempre poco indagato e pochissimo raccontato. Disponibile on demand

La morte della patria sopraggiunse di lunedì. Alle 6 della sera del 10 giugno 1940, Benito Mussolini si affacciò al balcone di piazza Venezia e annunciò di aver dichiarato guerra a Inghilterra e Francia. Un conflitto che si porterà via, in cinque anni, 500mila italiani, un terzo dei quali civili. Il Paese andò incontro al proprio destino rassegnato. Winston Churchill, l’uomo della vittoria inglese, dirà: "Gli italiani vanno alla guerra come si va a una partita di calcio e vanno alla partita di calcio come si va a una guerra".

 

Le 24 ore che precedettero quel lunedì mostrarono la distanza che passa tra il prima e il dopo di una tragedia. Il 9 giugno, un’atmosfera irreale, sospesa nel vuoto, avvolgeva la nazione. Nelle piazze di Roma, nei viali di Milano, nei vicoli di Napoli si respirava un’aria di apparente normalità. L’ultima domenica di pace fu un giorno di sport. C’erano le semifinali di Coppa Italia, con la Fiorentina trionfante la domenica successiva contro il Genova, e c’era soprattutto il Giro d’Italia, che nel caldo pomeriggio di questa vigilia di guerra terminava all’Arena civica di Milano, incoronando campione il giovane Fausto Coppi. Da appena una settimana si era concluso il campionato di Serie A, vinto dall’Inter di MeazzaUomini e donne vissero quelle ultime ore di pace ignari di quanto sarebbe accaduto l’indomani. Nessuno, infatti, aveva seriamente fatto i conti con la mania di grandezza di Mussolini e con la sua ossessione - da maestro elementare che aveva indossato la divisa imperiale – di entrare nella storia. Con la retorica che lo accompagnava da vent’anni, lunedì 10 giugno chiamò a raccolta la folla in piazza Venezia. Dopo due ore d’attesa, comparve per scandire il discorso.

Il 9 giugno 1940, l’Italia vive l’ultimo giorno di pace. Pure lo sport non sarà più lo stesso. Lo sport è un vanto del regime. Alle Olimpiadi del 1936 abbiamo vinto 8 medaglie: dal fioretto al pugilato, dalla vela alla Nazionale di calcio di Vittorio Pozzo, con l’occhialuto Frossi. La medaglia più importante l’ha portata a casa Ondina Valla negli 80 metri ostacoli, il primo oro al femminile in una gara individuale. Pensare che nel 1935 si voleva negare lo sport alle donne. Una foto la ritrae – unica donna – accanto a Mussolini in mezzo alla totalità di atleti uomini. L’Italia è anche campione del mondo in carica. Anzi, è due volte campione del mondo, perché ha vinto a Roma nel ‘34 e a Parigi nel ‘38. L’ultimo Mondiale è stato esaltante, ma ricco di polemiche, iniziato in mezzo ai fischi degli antifascisti alla prima partita contro la Norvegia. Per ripicca, contro la Francia Mussolini ha preteso la maglia nera. Vinciamo la Coppa in finale battendo l’Ungheria.

Ondina Valla
Ondina Valla

Domenica 9 giugno 1940 è l’ultimo giorno di pace, in un contrasto aspro tra serenità ed echi di guerra. Oltre allo sport, gli italiani occupano i cinema, dove si proiettano i film dei telefoni bianchi, pellicole di evasione del tempo, e i caffè, nei quali si possono ascoltare i programmi radiofonici dell’Eiar, la Rai del tempo. La canzone che fa emozionare tutti è “Mamma” e la canta – con i suoi birignao - Beniamino Gigli. Intanto, inizia ad affacciarsi un nuovo gruppo musicale che avrà grande successo nel Dopoguerra: il quartetto Cetra.

Quartetto Cetra
Quartetto Cetra

Gli italiani hanno pochi soldi, poca istruzione, pochissimi beni, ma hanno raggiunto un sopportabile stile di vita durante gli Anni 30, quelli che gli storici del futuro classificheranno come gli anni del consenso al regime. A Roma e nelle altre città è la stagione dell’autarchia per le sanzioni del ‘35 da parte della Società delle Nazioni dopo il nostro intervento in Africa. Così il sabato fascista impegna i balilla in prove di destrezza, nei salotti si beve karkadè al posto del tè, l’orbace sostituisce la lana di prima e i nomi stranieri sono italianizzati: Ambrosiana, e non più Inter; Milano, e non Milan. Nell’Italia provinciale, ma scaldata dai piccoli riti quotidiani, uno spazio cruciale lo occupa lo sport, dal ‘33 sotto diretto controllo del PNF. Se nei primi anni del secolo era stato lo svago delle elite, è ormai parte del dopolavoro che accomuna tutti, specie i maschi. La disciplina più seguita – ancor più del calcio - è il ciclismo di Binda e Girardengo, di Bottecchia e Guerra. La bici non è solamente lo strumento degli idoli delle figurine, è il mezzo di locomozione – il solo e unico – per la maggior parte che non può permettersi una Fiat Balilla.

Le statistiche dicono che dal 1898 al 1938 si è passati da 187mila esemplari a 4.935.000. Si pedala per lavorare e per fare la spesa. Anche per consegnarla a casa, come ha fatto per anni un fattorino della macelleria Merlano di Novi Ligure. Si chiama Fausto Coppi, è nato a Castellania nel 1919, e conta su due gambe prodigiose, nate per resistere alla fatica. Morirà giovane, entrando nella gloria dello sport. Nel ‘40 è alla prima occasione della vita: correre il Giro d’Italia da gregario del celebre Gino Bartali, vincitore della corsa rosa nel 1936 e nel 1937, nonché del Tour de France del 1938. Dieci anni più tardi, un’altra vittoria in Francia del toscano scongiurerà il rischio della guerra civile dopo l’attentato a Palmiro Togliatti. Ma questa è un’altra storia.

Fausto Coppi e Gino Bartali
Fausto Coppi e Gino Bartali

Dal 1909 il Giro d’Italia monopolizza l’interesse degli italiani, perché arriva in ogni angolo, sfiora le case. Con le Mille miglia, la corsa automobilistica che da Brescia scende a Roma, per poi tornare nella città della Leonessa, è l’evento per eccellenza delle strade italiane. Pure al Giro sono cambiate molte cose. Le lunghe tappe da 400 chilometri, con ciclisti in sella fino a 16 ore al giorno, hanno lasciato il passo a tragitti più brevi e rapidi. Nel ‘39 Giovanni Valetti si è imposto alla media record di 33 chilometri orari. Gino Bartali è il grande favorito, proprio con Valletti, dell’edizione 1940. Ma alla seconda tappa, nella discesa della Scoffera, cade per colpa di un cane in mezzo alla carreggiata. Invece di ritirarsi, agisce da gregario di Coppi, il quale – nell’undicesima tappa che va da Firenze a Modena – si invola in una fuga celebrata dallo scrittore Orio Vergani. "Fu allora, sotto la pioggia mescolata a grandine, che io vedi venire al mondo Coppi: aquila, rondine, alcione"Nessuno può più togliergli la maglia rosa. Il 9 giugno – ultimo giorno di pace dell’Italia – Coppi si aggiudica il primo dei cinque Giri d’Italia dopo ben 3.574 chilometri. Trionfa all’Arena Civica di Milano, spettacolare impianto fatto costruire da Napoleone, ancora adesso punto cardinale sulla cartina del capoluogo. La settimana prima, ad aiutare Coppi sul passo Pordoi, è stato Bartali. Fatto che non si ripeterà più a guerra finita, quando i duelli infuocati, le battute al vetriolo e una borraccia scambiata faranno nascere la più bella rivalità dello sport italiano. Un simbolo della rinascita.

Giro d'Italia 140, l'arrivo a Modena di Fausto Coppi
Giro d'Italia 140, l'arrivo a Modena di Fausto Coppi

Il ciclismo dà lustro all’Italia, la quale, anche in campo politico, prova a ritagliarsi uno spazio nello scacchiere internazionale. La strategia di Mussolini assomiglia tanto a quella del giocatore di poker più che al condottiero tratteggiato dalla stampa. Dopo la campagna d’Etiopia, è stata la volta della Spagna accanto a nazisti e franchisti, quindi l’Albania dalla primavera del 1939. L’obiettivo resta il Mediterraneo, rivendicato dal fascismo come diritto millenario, ma preteso pure dagli inglesi quale retaggio imperiale. Ancora più sentita è la rivalità con i francesi, che spinge l’Italia ad allontanarsi sempre di più dalle democrazie europee e ad avvicinarsi alla Germania, pronta invece a riconoscerci il Mediterraneo.

 

Il matrimonio con i tedeschi è ineluttabile, in uno scivolamento progressivo che conduce senza più vie di uscita al conflitto. L’espansionismo di Hitler non conosce limiti: l’annessione dell’Austria nel ‘38, noto come Anschluss, il Protettorato di Boemia l’anno seguente, l’invasione della Polonia l’1 settembre ‘39, inizio della seconda guerra mondiale. L’Italia, suo malgrado, è immersa interamente nel clima di tensione internazionale, dove a dare le carte è il guerrafondaio Hitler. Il 28 ottobre 1938 Von Ribbentrop, ministro degli esteri tedesco, visita Roma e propone a Mussolini un’alleanza con Germania e Giappone, invito accolto il 2 gennaio 1939 per bocca di Galeazzo Ciano, genero del duce e ministro degli Esteri. Il 22 maggio, sempre Ciano vola a Berlino per siglare il Patto d’acciaio fra Italia e Germania. È l’abbraccio mortale.

A Palazzo Venezia, nella sala del Mappamondo dove Mussolini intervalla gli incontri ufficiali a quelli ben più intimi con la giovane Claretta Petacci, si sa che non esiste alternativa alla Germania. Il duce è schierato contro gli inglesi e cotrno lo snobismo francese, martellante ogni mattina sulle prime pagine dei giornali. Su di lui pesa la preoccupazione di non tradire l’alleanza, come era successo nell’ultima guerra. Come scrive De Felice, ha da ultimo il timore che Hitler possa riservare all’Italia il trattamento usato con i Paesi nemici. Mussolini è conscio dell’impreparazione al conflitto e del fatto che servirebbero anni per avere un esercito equipaggiato. Per questo prova a prendere tempo, a vestirsi da mediatore. Si illude persino di arrivare in sei mesi alla pace. Qualche migliaio di morti, dice ai suoi, e ci sederemo al tavolo dei vincitori. Non andrà così.

L’ultima mossa nei confronti del pressante socio tedesco è rinviare l’ingresso. Il 28 maggio il duce indica a Ciano il 5 giugno come data per l’annuncio, la stessa ripetuta a Badoglio il giorno seguente. Una lettera di Hitler, impegnato sul fronte francese, chiede a Roma di posticipare per non allarmare l’aeronautica transalpina. Così il duce, che delle manovre del Fuhrer ha saputo ogni volta all’ultimo, acconsente alla richiesta. La prima di tante. E decide di oltrepassare il 9 giugno per non rovinare la domenica degli italiani.

Galeazzo Ciano, Adolf Hitler e Joachim Von Ribbentrop
Adolf Hitler, Galeazzo Ciano e Joachim Von Ribbentrop

Quel giorno il calcio ha in cartellone le semifinali di Coppa Italia: Fiorentina-Juve e Genova-Bari. La settimana prima, il 2 giugno, si è chiuso un campionato emozionante. L’Inter di Tony Cargnelli, trainer che ha vinto lo scudetto del 1928 con il Torino, è arrivata all’ultima giornata con un punto di vantaggio sul Bologna di Hermann Felssner, allenatore che nel 1938 ha rimpiazzato l’ebreo Arpad Weisz allontanato in seguito alle nuove leggi razziali. Il calendario, a 90 minuti dal termine, mette di fronte l’Inter e il Bologna. Non si gioca all’Arena, casa interista, bensì nel più capiente San Siro, stadio del Milan, un unico anello e molto distante dall’aspetto odierno. Quarantamila persone si assiepano per festeggiare lo scudetto nerazzurro, raggiunto malgrado i problemi fisici dei due elementi più famosi. Il primo è il raffinato Giovanni Ferrari, otto scudetti in carriera, capofila della tradizione di mezzali azzurre che giungerà sino a Tardelli e De Rossi. Calcia in maniera elegante e ha una visione geometrica del gioco, dote che ne farà il CT azzurro nella sfortunata spedizione del Mondiale ‘62 in Cile. Il secondo, Giuseppe Meazza, è la stella del calcio italiano. Ha segnato centinaia di reti da quando, sedicenne, è stato promosso titolare nell’Inter, decine le ha firmate anche in Nazionale. Il Balilla è l’amore inconfessato di ogni tifosa ed è l’idolo del regime, sebbene nel ‘39 soffra di una vasocostrizione a un’arteria. I cronisti parlano di piede freddo. In realtà, è prossima la separazione dall’Inter. Tra poco, infrangendo un tabù, sarà giocatore del Milan.

 

Milano, tra i locali del centro e la splendida piazza del Duomo, già cuore della futura metropoli, ha lottato per togliere alla Juventus il comando della Serie A, riassunto nei 5 scudetti di fili vinti dalla squadra di Carcano tra il ’30 e il ‘35. I nerazzurri si sono basati sui 15 gol del centravanti Guarnieri e sulla classe dell’italoargentino Demaria, talento che delizia le platee. Ci sono poi l’altro campione del mondo Locatelli e Frossi, eroi nel ’36 a Berlino. Il Bologna è armata non meno forte e proprio con l’Inter ha dominato il decennio. È lo squadrone che tremare il mondo fa, secondo un famoso slogan, capace dal ‘25 al ‘41 di infilare 6 scudetti. In attacco, dopo la prima fase capitanata da Angelo Schiavio, goleador nella finale del Mondiale ’34, è il tempo di Carlo Reguzzoni, attaccante implacabile, e di Hector Puricelli, detto Testina d’oro. Il centrocampo parla uruguaiano: se Fedullo è tornato in patria dopo le stagioni gloriose, in mezzo dettano legge Raffaele Sansone, che a Bologna vivrà il resto della vita, e Miguel Andreolo, altro campione del mondo come Biavati. È facile incrociarlo all’alba fuori dalle osterie o da qualche bordello, in campo tuttavia Michelone risulta sempre il migliore. In difesa, c’è un terzino sinistro che vola sulla fascia e che Pozzo non convoca per le intemperanze del carattere, non certo per le qualità. Si chiama Dino Fiorini: fra quattro anni verrà ucciso dai partigiani.

La prima pagina della Gazzetta
La prima pagina della Gazzetta dello Sport del 3 giugno 1940

La Serie A è un fatto di costume e di interesse pubblico. Ogni domenica la radiocronaca di una partita è affidata a Nicolò Carosio, voce che dal 1933 racconta le imprese della Nazionale e che nel 1945 documenterà la prima manifestazione di liberazione a Milano. Attraverso idoli come il laziale Piola, stella del calcio azzurro, la Serie A appare nelle figurine, nelle pubblicità, perfino nei cinema. Il primo film italiano sul football è “5-0”, regista Mario Bonnard, anno 1932.

La Serie A si è imposta, ma non è stato un percorso né breve, né facile. Nel 1940 non è ancora maggiorenne, eppure ha già più di 10 anni di vita.

È nata nel 1929-30, dopo un lungo percorso iniziato tre anni prima. Il testo fondativo è la Carta di Viareggio: sì agli oriundi, per aiutare la Nazionale, sì al professionismo, sì a un campionato unico. L’ha voluta Leandro Arpinati, presidente Figc e podestà di Bologna. Sarà ucciso il 22 aprile 1945Il 6 ottobre 1929 la Serie A è riuscita a vivere la prima giornata dei 90 anni di esistenza. Diciotto squadre, poi scese a 16 dal 1934, scelte tra le prime otto dei precedenti campionati Nord e Sud. Non ci sono ancora i numeri sulle maglie, che saranno attivi solo proprio dal 1939-40. Gli idoli sono lo juventino Mumo Orsi, col suo violino, e sempre lui, il Pep Meazza, con la brillantina in testa. La prima edizione della Serie A la vince l’Inter di Weisz. Come adesso, 10 anni dopo.

Giuseppe Meazza
Giuseppe Meazza ai Mondiali di calcio in Francia nel 1938

L’ultimo giorno di pace Mussolini lo trascorre in modo agitato a Villa Torlonia, accanto alla moglie Rachele e ai figli. Per lunedì 10 avrebbe già in agenda alcuni appuntamenti. Alle 17 deve incontrare l’ingegnere Ambrosini, mezz’ora dopo i capi dell’aeronautica. Ma vengono tutti annullati. Il conto alla rovescia è iniziato il 18 marzo, con l’incontro al Brennero con Hitler. A poco servono i dubbi di Papa Pio XII e del Re Vittorio Emanuele III, contrari al conflitto. L’Italia può reggere al massimo 6 mesi, l’industria bellica non soddisfa le commesse, e manca, come sempre nella nostra storia, un coordinamento tra i vari settori dello Stato. Ciano alle 4 del pomeriggio del 10 giugno consegna le dichiarazioni di guerra a Loraine e Francois-Poncet, ambasciatori di Inghilterra e Francia, poi annota nel diario: “Mussolini parla dal balcone di Palazzo Venezia. La notizia della guerra non desta eccessivi entusiasmi. Sono triste: molto triste. L’avventura comincia. Che Dio assista l’Italia”. Entriamo nel conflitto sfiduciati, pregando di cavarcela con una guerra parallela alla Germania, lei sì determinata. La guerra lampo, il blitzkrieg, la porta a invadere - dai primi di aprile alla fine di maggio - Olanda, Belgio, Lussemburgo, Norvegia e Francia. A Mussolini la cavalcata tedesca pare inarrestabile, non vuole restare neutrale come una qualunque Svizzera. Il 14 giugno, quattro giorni dopo il suo annuncio, le truppe di Hitler passano sotto l’arco di Trionfo a Parigi. Tutto sembra alla portata, tutto facile. Invece sta avanzando la catastrofe.

Corriere della Sera

Il calcio non rimane fuori dalle decisioni solenni. A Roma, dove Arpinati vi ha trasferito la sede della Federcalcio, si discute se sia giusto o no proseguire con il campionato di calcio. Nel 1915 si è fermato tutto, stavolta si sceglie invece di proseguire, allo scopo di continuare a tenere alto l’umore del popolo. La contemporanea interruzione del Giro d’Italia, che tornerà nel ‘46 col trionfo di Gino Bartali, segna l’ultima spinta alla già forte popolarità del calcio. È vero che i campionati italiani di atletica andranno avanti sino al 1943 e quelli di nuoto arriveranno al 1944, ma sulla scena nazionale vi è un unico protagonista: il pallone. Il 7 novembre 1942, il record dell’ora di Coppi al Vigorelli, riporta le due ruote al centro per qualche ora. Poi Coppi parte per il fronte.

 

Il calcio guida gli anni di guerra. Nel 1940-41, nella perenne sfida tra Inter e Bologna, diventano campioni d’Italia gli emiliani, che si vendicano contando sull’apporto dell’ex nerazzurro Giovanni Ferrari. Dodici mesi dopo il campionato va invece alla Roma di Amedeo Amadei, il fornaretto di Frascati che simboleggerà – con i suoi gol e la grande umanità - il calcio italiano degli Anni 40 e 50. La squadra allenata, dall’ungherese Alfred Schaffer, porta nella Capitale il primo scudetto vinto a sud di Bologna, giocando un metodo classico. Qualcuno vedrà in Mussolini l’occulto architetto della vittoria. In realtà, altri sono i pensieri del duce. È semmai più plausibile la spiegazione dei bombardamenti: al nord sono cominciati nel ‘40, a Roma tre anni dopo. 

Amedeo Amedei e Valentino Mazzola
Amedeo Amedei e Valentino Mazzola

C’è ancora tempo per un ultimo campionato regolare nel 1942-43, finito sulle maglie del Torino. Anzi, del Grande Torino, perché quel titolo - vinto in extremis sul Livorno - inaugura la scia dei cinque scudetti, che sarebbero stati giocoforza di più senza la guerra nel mezzo e senza la tragedia di Superga del 4 maggio ‘49. L’uomo che ha costruito il gioiello è il presidente Ferruccio Novo, imprenditore del cuoio, aiutato dai suggerimenti di Vittorio Pozzo e di Egri Erbstein, ebreo rimasto senza lavoro come Weisz. In panchina siede Andreas Kutik. La chiave di volta sono gli investimenti sul mercato: assieme al triestino Grezar, nell’estate 1942, sono stati comprati Valentino Mazzola ed Ezio Loik, interni di centrocampo che hanno donato al piccolo Venezia la Coppa Italia del ‘41. Costo: un milione e 600mila lire. I tre hanno debuttato in Nazionale lo stesso giorno, il 5 aprile ‘42, nel match contro la Croazia. Loik e Mazzola fanno in tempo a prendere parte a una seconda presenza due settimane dopo con la Spagna. Sono le ultime partite degli azzurri, giocate non a caso con regimi amici come quello di Pavelic e di Franco. Nel 1940, ha disputato tre gare in Nazionale pure un buon centrocampista, giocatore di Fiorentina e del Torino. Il suo nome è Bruno Neri: verrà ucciso dai fascisti nel 1944

Ferruccio Novo
Ferruccio Novo

Il calcio si ferma perché la situazione della guerra sta precipitando. Anzi, è già compromessa. Nel giro di tre anni, dal 1940 al 1943, tutto è ribaltato. La resa della Francia, arrivata pochi giorni dopo la dichiarazione di guerra di Mussolini, ha solo coperto la verità. Il romagnolo si danna per lasciare un segno nel conflitto, per non essere la ruota di scorta dei tedeschi. Il 28 ottobre 1940 viene invasa la Grecia. Nessuno dei vertici militari, cui il duce guarda con crescente diffidenza, lo ha avvisato dei pericoli. Sull’Egeo muoiono 20mila connazionali. Soltanto l’aiuto della Germania, esattamente come nel ‘41 in Jugoslavia, altro Paese che l’Italia occupa per rendersi autonomo da Hitler, permette al nostro esercito di non affondare.

Falliti i tentativi in Grecia e in Jugoslavia, ci si aggrappa all’Africa. La battaglia, qui, è contro gli inglesi e il supporto è dei tedeschi, guidati da Rommel, il quale ottiene un’incoraggiante serie di vittorie. Ma sono battaglie, non è la guerra. La tappa cruciale diviene così El Alamein, negli ultimi giorni dell’ottobre 1942. Sulla sabbia, tra il caldo insopportabile e la mancanza di viveri, l’Asse - in un paio di settimane – inizia a perdere la guerra vera. Per l’Italia è la svolta, poiché accanto agli ormai 200mila morti, chi è rimasto a casa è consapevole che non ci sia più niente da fare. Londra non è caduta sotto le bombe della Luftwaffe e il 22 giugno ‘41 Hitler si è infilato nel tunnel già fatale a Napoleone: la Russia. Dal deserto di El Alamein alla neve bianca di Leningrado, dove l’Armir italiana combatte con scarpe di cartone pressato, si scrive la fine di Mussolini.

 

A Roma è evidente a chiunque che il fascismo sia all’epilogo, ma serve un atto formale per farlo cadere. Arriva nella notte tra il 24 e il 25 luglio ’43, nella riunione del Gran Consiglio, con l’ordine del giorno firmato da Dino Grandi. Qualcuno lo approva non capendo che l’atto significa la caduta di Mussolini, altri pensano così di salvarsi. Tra questi c’è Galeazzo Ciano, il quale sarà giustiziato l’11 gennaio seguente per il tradimento. È lui, nel tramonto del regime, la maschera più tragica. Gli eventi precipitano. Vittorio Emanuele III ordina l’immediato arresto di Mussolini, liberato il 12 settembre al Gran Sasso da un gruppo d‘assalto tedesco. I Savoia si rifugiano a Brindisi, scappando nottetempo via Pescara. L’esercito è allo sbando, senza ordini. Gli alleati sono in Sicilia da luglio e risalgono ora verso Roma, mentre otto divisioni tedesche fanno la strada inversa per occupare il nord e il centro. È un quadro complicato, caotico, in cui la popolazione civile cade sotto le bombe. È un’Italia divisa in due dalla Linea Gotica. Al Nord c’è la Repubblica sociale di Mussolini, al Sud gli angloamericani, nuovi alleati dopo l’armistizio firmato a Cassibile. L’8 settembre Badoglio annuncia la novità alla radio.

Cartina

Due governi in un unico Paese. Per il calcio vale la stessa cosa. La Federcalcio si separa. Una parte si trasferisce a Venezia, per rimanervi fino al marzo del ’44, quando andrà a Milano. L’altra metà rimane a Roma, custodendo i tesserini dei giocatori e la Coppa Rimet. Ottorino Barassi – futuro presidente della Figc – l’ha nascosta in una scatola di scarpe. E l’ha infilata sotto al letto. I nazisti, perquisendo l’appartamento, non l’hanno scoperta. Al Sud, nella Puglia che ospita il Re, si disputa un campionato regionale nel 1943-44. Vince il Conversano. Portiere è Costagliola, che dopo la guerra lo sarà pure di Fiorentina e Italia. Nella capitale va in scena un torneo semiregionale, cui prendono parte la Roma condotta da Amadei e da Fulvio Bernardini, reintegrato alla bisogna nonostante l’età, e la Lazio guidata in mezzo al campo da Andreolo, proprio l’uruguaiano che avevamo visto a Bologna, finito a sud del fronte. Il torneo se lo aggiudica proprio la Lazio, che tuttavia non ha modo di sfidare le squadre del Nord. Si ripete quanto era già capitato nel 1915. Nel Settentrione si gioca un torneo più largo, nel più grande sforzo organizzativo compiuto sotto le bandiere della Repubblica sociale. Si distribuisce su diverse regioni: Piemonte, Lombardia, Friuli Venezia-Giulia, Liguria, Veneto, Emilia e Toscana.

Vi mostriamo, davvero con un documento di assoluta rarità, e grazie alla collaborazione di Lamberto Bertozzi, i registri originali di quello strano campionato, iniziato nel dicembre del 1943 e - dopo le defezioni di numerose squadre dovute ai bombardamenti sulle città – destinato a essere assegnato in un girone finale a luglio.

Documento

 Così ha deciso, nei primi giorni di gennaio del 1944, la Consulta presieduta da Ettore Rossi, numero uno della Federcalcio presto rimpiazzato dal presidente dell’Inter Ferdinando Pozzani. Durante alcuni di quei match, come mostra questa foto altrettanto originale, negli stadi compare Wanda Osiris, diva dello spettacolo, circondata da un cammello e dai colleghi della rivista teatrale.

Wanda Osiris
Wanda Osiris

Anche gli scenari sono cambiati: da Roma si è passati al lago di Garda, dove si trova la sede del nuovo Stato. Per molti è la lunga mano di Hitler sull’Italia. Mussolini vive a Villa Feltrinelli con la famiglia. L’energico capo del governo è un uomo smagrito, pallido, in grado di mangiar solo brodo. Il 9 giugno 1940, ultimo giorno di pace, dista secoli. Ha cambiato abitazione, abitudini, prospettive. Sul lago il vecchio duce è sotto il controllo dei tedeschi, mentre la Germania sta perdendo la guerra dopo la sconfitta a Stalingrado tra la fine del 1942 e i primi del 1943. Il 6 giugno 1944 gli alleati sbarcano in Normandia. È la fine per lui. Poco lontano da Villa Feltrinelli, dimora dei Mussolini, ci sono tutti i ministeri della RSI. Villa Simonini, oggi Albergo Laurin, è il ministero degli esteri. Villa Amadei ospita quello della cultura popolare. A pochi chilometri c’è Salò. È lì che ha sede l’Agenzia Stefani, progenitrice dell’attuale Ansa, nelle ex scuole Cervi. Ogni dispaccio del governo porta in testa il nome di quella località. Per tutti diventa dunque la Repubblica di Salò.

 

In realtà la vera capitale è Milano, la città avvolta dalla nebbia fredda e dalla paura nelle strade. Notti e nebbie, con un celebre titolo di Carlo Castellaneta. È tutta nera: pane nero, brigate nere, mercato nero, divise nere delle SS che gettano terrore in chiunque si trovi a incontrarle. Il sempre più vasto fronte di liberazione antifascista subisce rappresaglie e violenze. L’ultimo discorso di Mussolini in pubblico è al teatro lirico. Quell’edificio, costruito alla fine del Settecento e conosciuto anche come teatro della Cannobiana, è il palcoscenico dell’estrema speranza del fascismo. Mussolini parla sul palco nel dicembre ’44, cercando di toccare le corde del riscatto. Si rivolge a un pubblico in mezzo a cui ci sono molti ragazzini-soldati. Il cerchio è stretto attorno a Milano, i partigiani dalle montagne iniziano a scendere a valle per combattere. 

Benito Mussolini mentre suona il violino
Benito Mussolini mentre suona il violino

Milano è anche l’ultimo avamposto del calcio. La fase finale del campionato 1943-44 va in scena all’Arena Civica di Milano, sempre quella, sempre lei. Si gioca dal 7 al 20 luglio 1944. Dopo le semifinali di interzona, vi sono arrivate tre squadre: il Venezia, il Fiat Torino e i Vigili del Fuoco di La Spezia. Non stupisca la stranezza dei nomi associati ai vecchi club: persino la Juventus si chiama Cisitalia, industria del settore meccanico. Alcune squadre si sono legate alle aziende e a realtà del territorio per trattenere i giocatori dalla chiamata al fronte. Soltanto Rava, tra i big, è partito.

Il pubblico negli impianti non manca. Decine di migliaia di paganti, cui gli altoparlanti rivolgono una raccomandazione prima di ogni partita. Di fronte agli allarmi aerei di normale gravità, si resta ai propri posti. Sono gli spalti di guerra, preda dei rastrellamenti di tedeschi e repubblichini. Ma il calcio è più forte di tutto, sconfigge persino la paura. Il Torino è ancora la squadra più forte. Non ci sono Menti, passato al Milano, e Grezar, impegnato con l’Ampelea di Isola d’Istria, ma vi sono pur sempre Mazzola, Loik e Gabetto, ai quali si è aggiunto Silvio Piola, tornato nella terra d’origine. I giocatori vengono ingaggiati infatti in base a dove si trovano a vivere. Il Torino ha tutto per vincere. Ma pochi giorni prima della gara contro i Vigili del Fuoco, va a Trieste per un’amichevole in favore dei senza tetto. Tra andata e ritorno, servono sette giorni, in mezzo alle strade divelte: sfinito dal lungo viaggio, il Torino soccombe contro i Vigili per 2-1.

Calcio Illustrato

È forse la più bella favola del calcio italiano. Grisù con il tricolore. La maggior parte dei giocatori vengono dallo Spezia. L’ingegnere Luigi Gandino, comandante del 42° Corpo dei vigili del Fuoco, li ha messi insieme vi e ha aggiunto un paio di giocatori del Napoli e un paio del Livorno, arrivato secondo nel torneo precedente. Ottavio Barbieri, l’allenatore, ha lavorato al Genoa con Garbutt, l’uomo cui dobbiamo l’appellativo mister per gli allenatori, che ha introdotto il sistema da noi. Barbieri imposta lo Spezia con il mezzo sistema, prima volta in Italia: i tre difensori del sistema e il centromediano del metodo. Chiusura ermetica contro cui sbatte il Toro.

La squadra ha vinto anche grazie al sale. Che c’entra il sale? Ne hanno caricato tanto sull’autobotte che serve da pullman. Lo scambiano per strada con cibo e ospitalità. Vincono anche per quello. Nel 2002 la Federcalcio riconoscerà ai Vigili del Fuoco il titolo per il campionato di guerra. 

Pure nel resto d’Europa si è quasi sempre giocato, ma negli ultimi mesi di guerra, tra l’inverno ’44 e la primavera ‘45, tutto si è dovuto fermare. Nel mezzogiorno liberato però si gioca. I calciatori sono cittadini come tutti. E come tutti cercano riparo. Si vivono gli ultimi mesi di guerra nei rifugi e a caccia di cibo. Qualcuno ha scelto diverse. Dino Fiorini, il fortissimo terzino del Bologna, campione osannato negli Anni 30, ha tolto la divisa rossoblù e ha indossato la nera della Guardia nazionale repubblicana, l’esercito della Repubblica sociale. Spavaldo in campo, come a bordo della sua amata motocicletta, ha affrontato la guerra come una sfida, tornando a vivere vicino agli amici di San Giorgio di Piano, il paese della campagna bolognese nel quale si è sposato e ha cresciuto le due figlie. Un po’ per sfida, un po’ per goliardia, ha mantenuto il tratto impetuoso. La parabola finisce male, perché il 16 settembre 1944 viene ucciso a Monterenzio, sulle colline di Bologna, durante uno scontro a fuoco con i partigiani. Con lui c’è un amico comunista. Non si capirà mai chi abbia sparato, non si ritroverà mai il corpo. Nel ricordo di chi vi giocò assieme, rimarrà l’immagine del vigoroso terzino di un tempo.

Dino Fiorini
Dino Fiorini

Bruno Neri ha scelto invece la sponda opposta ed è entrato a far parte delle Brigate Ravenna, che agiscono nella sua Faenza, e fanno parte del Comitato di liberazione nazionale. In particolare di giustizia e libertà, la parte laica della Resistenza. È stato il cugino Vittorio a fargli imbracciare il fucile sulle montagne e a diventare un partigiano, come avviene a molti italiani in quei mesi. Su una di quelle alture, nei pressi di Marradi, dove Toscana e Romagna si incontrano, il 10 luglio 1944 viene ucciso dai fascisti assieme a Vittorio Bellenghi, ex giocatore di basket. Oggi una targa davanti alla casa che abitò nella sua Faenza, ricorda Berni, nome di battaglia di Neri. Aveva portato in Serie A la Fiorentina, aveva vinto i Mondiali universitari, aveva fatto parte dal ’37 al ‘40 del Torino, per tornare da ultimo ad allenare il Faenza. Una foto lo ritrae, unico della squadra viola, con le braccia abbassate durante il saluto fascista. Dopo le partite in Nazionale, la Gazzetta dello Sport aveva scritto: "Neri è un atleta che unisce, alle doti di generosità, quella di una tecnica elegante e sicura". Non gli basterà per salvarsi dalla furia cieca della guerra, come non basterà a Dino Fiorini, al tenente fascista Cecilio Pisano, ex giocatore del Liguria, a Vittorio Staccione, un passato con il Torino, la Fiorentina e il Cosenza, morto a Mauthausen, all’ex juventino Marchi e all’ex granata Walter Petron, vittima delle bombe, a Luigi Barbesino, capitano del Casale abbattuto mentre era alla guida del suo aereo sui cieli sopra Malta. Si salverà invece Mario Pagotto, ex calciatore del Grande Bologna, finito campi di concentramento.

Bruno Neri
La targa davanti alla casa che abitò a Faenza ricorda Berni, nome di battaglia di Neri

Niente bastò a Mussolini per salvarsi dal conflitto che lui aveva generato con una scellerata scelta. Il 28 aprile 1945, davanti al cancello di villa Belmonte di Giulino Mezzegra, fu giustiziato da un commando partigiano assieme a Claretta Petacci, fino all’ultimo tenace nel rimanere accanto al grande amore della sua vita. Finiva lì la vita di Mussolini, e cessavano la sua parabole politica, la sua ambizione di comandare una situazione che non riusciva più a governare, lasciando un Paese battuto, distrutto, umiliato.

L'Unità

Da due giorni, lontano da quel ramo del lago di Como, l’Italia assaporava la pace dopo un lungo, estenuante tempo di guerra. Erano trascorsi 4 anni, 11 mesi e 16 giorni dall’ultimo giorno di pace. Si tornò subito a giocare a pallone, il 14 ottobre ripartì immediatamente il campionato di calcio, seppure diviso per una stagione tra sud e nord. A novembre la Nazionale tornò anch’essa in campo, sfidando la Svizzera a Zurigo, Coppi e Bartali iniziarono a sfidarsi per la gioia degli italiani. All’Arena civica si concluse il Torneo benefico lombardo, unico della storia con il girone d’andata in guerra e quello di ritorno in tempo di pace. L’Italia seppe risollevarsi e capì quale fosse il valore della concordia, il sapore dolcissimo della pace. La felicità di una vita normale. Lo sport divenne emblema della nuova gioia di vivere. La bellezza e le emozioni di un gol, i brividi per la vittoria in solitaria del campione, i pugni, le schiacchiate, gli affondi, le sbracciate, le medaglie e le coppe. La voglia irrefrenabile di tornare a vivere. Non era più il vecchio giorno di pace, questo, ma era il primo di una nuova vita, come vale per ogni società che provi a ripartire dopo una guerra, una malattia. L’unico vaccino contro ogni paura, anche quella volta, fu lo sport.

Storie

Appuntamento dunque con la puntata di "Storie di Matteo Marani", sempre disponibile on demand.  Per ripercorrere e indagare quel 9 giugno 1940 e i cinque anni bellici che ne seguirono. Grazie alle testimonianze straordinarie dello storico Emilio Gentile, dei giornalisti Mario Sconcerti e Giovanni Bruno, del popolare Pippo Baudo - bambino all’epoca - vengono così ripercorsi i momenti, i fatti, i protagonisti dello sport e non solo dello sport di quegli anni. Il tutto nello stile ormai ben conosciuto di Storie, curato da Fabio Fiorentino e Andrea Parini. Un montaggio moderno e innovativo, accompagnato da documenti esclusivi, come i registri della Federcalcio del 1944, giornali, fotografie, e, per la prima volta in onda, restaurata e colorizzata da Istituto Luce Cinecittà, la dichiarazione di guerra di Mussolini - pronunciata lunedì 10 giugno 1940.