Storie, "Il Mondiale Desaparecido": il documentario dedicato ad Argentina 1978

L'INCHIESTA

Uno speciale esclusivo per riportare alla memoria, oltre 40 anni dopo, la Coppa del Mondo che si disputò in Argentina, il più grande spettacolo di propaganda dai tempi delle Olimpiadi di Berlino. Un Mondiale per nascondere terrore e tragedie. Per il ciclo Storie, di Matteo Marani: 1978, il Mondiale Desaparecido. Disponibile on demand

Un racconto, una storia di calcio e di politica. Di gol e tragedie. Una figura centrale per ripercorrere questi anni bui è quella di Licio Gelli, il Maestro Venerabile della Loggia P2, che in un documento esclusivo conferma- per la prima volta- la sua presenza a Buenos Aires il giorno della finale tra l'Albiceleste e l'Olanda. Racconti, ricostruzioni e le testimonianze del Vice Console a Buenos Aires di quegli anni, Enrico Calamai, di Margherita Boniver, Presidente di Amnesty International dal 1973 al 1980. E anche degli azzurri che parteciparono a quel Mondiale: da Tardelli a capitan Zoff, fino a Franco Carraro, capo delegazione della Nazionale. Infine, le parole del centrocampista argentino Daniel Bertoni, che segnò all'Olanda nella finale mondiale del 1978.

1978, il Mondiale Desaparecido

La notte prima della finale sembrava che tutta Buenos Aires trattenesse il respiro. Silenzio e speranza. L'attesa si concentrò sulla 9 de julio, la via più larga del mondo, nei quartieri borghesi di Palermo e della Recoleta, nelle periferie più povere della capitale. La Nazionale di calcio, allenata dal “Flaco” Cesar Menotti, aveva in programma la partita più importante nella storia dell'Argentina. Oltre 70mila spettatori riempirono l'indomani lo stadio Monumental, la casa del River, per la finale contro l’Olanda. La colonnina indicava 12 gradi, il cielo era grigio come l’inverno platense. I gol di Mario Kempes e la durezza di capitan Passarella servivano a lenire le sofferenze di un popolo.

Tutto era pronto. Alle 15.08 di domenica 25 giugno 1978, con otto minuti di ritardo causati dalla protezione messa al braccio dell’olandese René Van der Kherkof, l’arbitro italiano Sergio Gonella fischiò l’inizio. L’Argentina rischiò di perdere la gara, ma riuscì a vincerla. Il 3-1 finale, maturato dopo i due tempi supplementari, regalò al Paese il primo Mondiale e allungò la sopravvivenza della dittatura, la cui caduta avverrà nel 1983, con la sconfitta contro gli inglesi sulle isole Falkland.

Anche la notte prima della finale, nei garage e nei sotterranei della Capitale, si continuò a torturare e a uccidere gli oppositori politici, gli studenti delle università, i cattolici del volontariato. La giunta militare manipolò l’informazione e nascose attentamente ogni verità. Il miliardo di spettatori davanti al video non immaginò il terrore e le tragedie nascosti dietro il sipario. Come aveva scritto un giornale europeo alla vigilia del torneo: il Mondiale 78 era stato il più grande spettacolo di propaganda dai tempi delle Olimpiadi di Berlino. Questo fu. Esattamente 40 anni fa.

I Mondiali 78 erano stati assegnati all’Argentina nel comitato esecutivo della Fifa di Tokyo del 1964. Due anni dopo, nella Coppa del Mondo in Inghilterra, i torti subiti dalla Nazionale albiceleste contro i padroni di casa avevano rafforzato la candidatura, poi confermata nel 1970 e nel 1974.

A rendere più forte l’immagine del Paese, nel 1973, si era aggiunto il rientro in Patria di Juan Peron, la figura più importante del Novecento argentino. Leader dagli accenti populisti, per questo amatissimo dalle schiere di descamisados, aveva unito in sé nazionalisti di destra e giovani di sinistra. Era uno strano impasto politico, difficile da decifrare. Peron era stato estromesso con un putsch militare nel 1955, tre anni dopo la scomparsa della celebre moglie Evita. Ma che qualcosa si fosse rotto nel peronismo, durante la lunga assenza del leader, era lampante dall’arrivo all’aeroporto di Ezeiza. Sostenitori di destra, mischiati ai milioni argentini, avevano sparato contro quelli di sinistra, lasciando per terra 13 morti e 200 feriti. Dal balcone della Casa Rosada, il caudillo se l’era presa coi Montoneros, l’ala progressista: «Imbecilli asserviti al denaro straniero».

Ancora più singolare risultò la scelta della compagnia aerea per il volo di rientro dall’esilio di Madrid. Non le Aerolinas Argentinas, come era logico aspettarsi, bensì Alitalia. Perché quel viaggio l’aveva organizzato un italiano sin lì sconosciuto ai più e che invece c’entra molto con questa storia. Persino Giulio Andreotti, vedendolo riverito e corteggiato da Peron alla Casa Rosada, ne era rimasto sorpreso.

Quell’italiano si chiamava Licio Gelli ed era il capo della Loggia massonica P2.

Il presidente Juan Peròn e la seconda moglie, Evita 

L’attacco di Peron alla sinistra aveva spento di colpo la speranza di milioni di ragazzi. Al contempo, aveva aperto la stagione della repressione, annunciata dalla Triplice A: Alianza Anticomunista Argentina. A idearla era stato – in anticipo sui generali - il ministro del precedente governo Lopez Reja, consigliere di Isabelita Peron, seconda moglie del leader, che gli subentrerà dopo la morte nel 1974. Appassionato di magia nera, pure lui amico personale di Gelli, il numero uno del Benestar Social aveva aperto la caccia ai sovversivi. Muovendosi nella notte, gruppi di paramilitari prelevavano in strada o nelle case gli oppositori, caricandoli poi di forza a bordo di Ford Falcon privati della targa per renderli irriconoscibili. Lo stesso, identico sistema verrà impiegato negli anni successivi dalla dittatura per far scomparire la gran parte dei 30mila desaparecidos.

L’insicurezza sociale offerta dal Paese aveva spinto altre Nazioni a offrirsi per organizzare il Mondiale: il Brasile, l’Olanda, la Spagna, pronta ad anticipare l’appuntamento di quattro anni dopo. Ad aumentare i dubbi sull’Argentina era stato il colpo di Stato scattato all’alba del 24 marzo 1976, giorno che segna l’inizio di una delle più feroci tirannie nella storia del Sudamerica. Con pochi carri armati a presidiare le strade, era stato deciso l’arresto di Isabelita Peron e la presa del potere da parte dei militari. La presidenza toccò al generale Jorge Rafael Videla, capo dell’Esercito, mentre i vice furono individuati nell’ammiraglio Emilio Eduardo Massera, numero uno della Marina, e nel generale Orlando Ramon Agosti, in rappresentanza dell’Aviazione. Le procedure furono le più discrete possibili per non innescare lo sdegno internazionale provocato tre anni prima dal golpe di Pinochet in Cile. Le vittime recluse negli stadi avevano acceso l’indignazione del mondo, lezione che gli argentini dimostrarono di comprendere. La sera precedente, la Nazionale di Menotti aveva giocato un'amichevole in Polonia, vincendo 2-1. Il calcio era lo strumento ideale per far apparire tutto normale.

Dopo il colpo di Stato del 24 marzo 1976 diventò presidente il generale Jorge Rafael Videla

Proprio per questo, il Mondiale fu considerato funzionale alla credibilità del Paese. I militari non solo rassicurarono sul proseguimento dei lavori, ma dopo avere chiesto aiuto della società di comunicazione americana Burston Marsteller, stanziarono altri finanziamenti per trasformare in un successo planetario il Proceso di Reorganizacion National, come fu chiamato il progetto golpista. Settecento milioni di euro furono spesi per la ristrutturazione degli stadi: Mar del Plata, Cordoba, oltre a quelli del Velez Sarsfield e del River Plate. Altri 700 milioni andarono per le opere di urbanizzazione. Una sessantina, non meno importanti per il risultato finale, furono destinati all’impresa statale “Argentina tv 78”, che assicurava le trasmissioni delle partite. Le prime a colori in molti Paesi, non in quello ospitante. Nel luglio 1976, quattro mesi dopo il golpe, il Mondiale fu dichiarato obiettivo di interesse nazionale e il 3 dicembre fu creato l’Eam, l’Ente autarquico mundial. Sotto al quale finì l’intera organizzazione, con l’avallo silenzioso, sin troppo silenzioso, della Fifa.

Molti paesi assisterono alle partite del Mondiale a colori. Non l'Argentina

L’avvicinamento al Mondiale non fu né semplice né indolore. Il primo presidente dell’Eam, il generale Actis, uomo fidato di Videla, morì in un attentato. Le indagini si concentrarono sui Montoneros, mentre i sospetti avrebbero dovuto riguardare l’area di governo. Al suo posto fu infatti chiamato l’ammiraglio Carlos Alberto Lacoste, legato a Massera, una scelta che spostava l’evento dalle mani dell’esercito a quelle della Marina. I due avevano diverse cose in comune, a cominciare dall’aspetto fisico: taglia forte, sguardo brutale e dispotico, incarnavano la disciplina prodotta nelle caserme. L’altro elemento con cui fare i conti fu la profonda crisi economica del Paese. L’inflazione pareva irrefrenabile, col costo dei beni di consumo modificati nel giro di pochi giorni. Alla popolazione fu chiesto uno sforzo supplementare, sollecitando l’orgoglio nazionale di ospitare un Mondiale. La propaganda utilizzò gli idoli sportivi: il tennista Guillermo Vilas, l’ex pilota Manuel Fangio, il campione di pugilato Carlos Monzon. E dietro di loro, come recitavano i manifesti appesi nelle città, un solo motto: “25 milioni di argentini giocano il Mondiale”.

L’obiettivo era arrivare all’inaugurazione del torneo, fissata per il primo giugno 1978. Quella mattina, dopo avere preso parte alla messa, Videla presenziò in divisa a un evento governativo e poi indossò l’abito borghese con cui si presentò al Monumental per il via ufficiale. Quello di inaugurazione fu un discorso pieno di falsità e di inganni.

“Nel segno dell’amicizia tra i popoli e gli uomini, nel segno della pace dichiaro inizialmente inaugurato l’undicesimo campionato del mondo 1978. Molte grazie”.

La spudorata menzogna di Videla, che parlò di pace, di dignità e di libertà, diede il via a un torneo combattuto, avvincente, sebbene meno spettacolare di quello disputato quattro anni prima in Germania.

L’Olanda, giunta sino alla finale, rimase orfana della stella Joahn Cruijff, deciso a non partecipare al torneo non come segno di protesta contro il regime, piuttosto per la paura dei sequestri. Alla squadra di Ernst Happel, con i gemelli Van de Kerkhof come unica novità rispetto alla squadra meravigliosa della Germania, era stata sufficiente la maggiore forza fisica dei giocatori per tornare in finale.

Il "Gauchito", la mascotte del Mondiale argentino

Le sorprese, evidenti nell’assenza dell’Inghilterra e della Russia, avevano marcato il Mondiale dei record, con 106 squadre iscritte alle qualificazioni. Tra le 16 finaliste, brillò l’Italia di Enzo Bearzot,allenatore federale cresciuto all’ombra di Ferruccio Valcareggi. Dopo la rimonta con la Francia nel primo match, la squadra continuò a migliorarsi, aiutata dall’inserimento dei giovani Paolo Rossi e Antonio Cabrini. Era la squadra che interpretava il calcio più divertente. Le critiche feroci contro Bearzot si erano ammorbidite davanti alle giocate a centrocampo di Causio, Tardelli e Zaccarelli, sorrette a loro volta da una difesa che contava su Scirea, Gentile e Cabrini. La squadra si piegò all’Olanda nella seconda parte del torneo, dopo che nella prima aveva battuto i futuri campioni del mondo con un gol memorabile di Bettega. Zoff fu molto criticato per i gol presi da lontano.

Nell’altro girone, l’Argentina era arrivata in finale grazie a clamorosi aiuti arbitrali e alla pagina mai chiarita della sfida con il Perù, per quella che va sotto il nome di Marmelada Peruana. Prima del match, per superare in classifica il Brasile, alla squadra di Menotti occorreva una vittoria con quattro gol di scarto. La montagna fu scalata grazie alla compiacenza del portiere peruviano Quiroga, argentino di nascita, e a un’arrendevolezza sospetta. Prima della gara, Videla Kissinger si erano presentati nello spogliatoio per salutare la squadra ospite. E l’autunno successivo, una piccola notizia riportata nelle pagine interne dei quotidiani parlò di un accordo per esportare grano e carne argentina in Perù. In questo modo, l’Argentina conquistò la finale. Dal giorno dell’inizio delle qualificazioni e sino a quel giorno, già 20mila persone erano state uccise.

Il 6-0 dell’Argentina contro il Perù, passato alla storia come la “marmelada”, equivalente sudamericano del nostro biscotto

A meno di un paio di chilometri dal Monumental sorgeva la Escuola de mecanica de l'Armada, oggi museo della memoria, conosciuta nel mondo con il suo acronimo: Esma. Dei 364 centri di detenzione conteggiati alla fine del Proceso, alcuni nascosti nei garage e in comuni autorimesse, l'Esma resta il principale. Era una caserma della Marina dagli inizi del secolo, di stile neoclassico. Il Casino de Oficiales divenne il luogo delle torture per migliaia di giovani. Se ne conteranno almeno 5mila. A guidarla erano l’ammiraglio Ruben Jacinto Chamorro e una serie di marinai graduati: Jorge Acosta, detto il Tigre, Juan Carlos Rolon, Antonio Pernias, Adolfo Scilingo, Alfredo Astiz, giovane e crudele ufficiale, il biondino che si introdurrà tra le primissime madri di Plaza de Mayo per farle catturare. All’Esma, sulla quale comandava in ultimo Massera, l'ammiraglio Zero, si torturò ininterrottamente giorno e notte, solo per le partite della Nazionale di casa al Mondiale – come raccontò qualche detenuto – gli aguzzini si fermarono. La violenza fu inusitata.

All'Esma esisteva anche un ufficio, la Pecera, impegnato nella propaganda: era qui che venivano esaminati gli articoli dei giornali stranieri nel giugno 1978 ed è qui che furono falsificati alcuni passaporti. Uno di questi fu preparato per Licio Gelli col nome di Marco Bruno Ricci. Gli verrà trovato addosso il giorno dell’arresto in Svizzera.

Le prigioniere in gravidanza furono fatte partorire e, prima di essere uccise, furono tolti loro i figli per essere affidati a famiglie vicine al regime. Si conteranno 500 “chupados”, neonati sottratti, molti dei quali scopriranno la verità sulle loro origini anni dopo grazie alle combattive Abuelas de Plaza de Mayo, le “nonne” impegnate nel riconoscimento dei nipoti attraverso il Dna. In effetti, tutto quello che la politica non seppe fare, ovvero di opporsi a un regime spietato e sanguinario, fu delegato alle donne argentine.

Prima di loro, nessuno aveva avuto il coraggio di denunciare le atrocità compiute dai militari. Si dovette aspettare il 30 aprile 1977, un giovedì pomeriggio, perché per la prima volta un gruppo di mamme di desaparecidos si radunasse di fronte alla Casa Rosada, camminando in silenzio attorno a Plaza de Mayo per chiedere verità. Quella marcia divenne un emblema e fu uno squarcio nel silenzio generale. Parecchio si è narrato del fatto che il portiere della Svezia, Ronnie Hellstrom, avesse voluto incontrarle durante il Mondiale. Da quello che risulta a noi attraverso alcune testimonianze dirette, ciò non accadde. Il Mondiale fu visto dalle stesse madri come un’ultima speranza di messaggio al mondo sull’isolamento nel quale erano precipitate migliaia di famiglie. E, davanti ai pochi operatori televisivi disposti a riprenderle, urlarono la propria disperazione.

La stampa ebbe una responsabilità elevata. Specie quella italiana. Nel corso del Mondiale, poco filtrò nei racconti degli inviati. Elio Domeniconi, uno dei 121 giornalisti del nostro Paese accreditati, scrisse sul Guerin Sportivo: « Gli argentini si sentono spiritualmente, e non solo simbolicamente vicini all'Ente Autarchico Mundial. In questo Mundial 78 non è di scena l'Argentina di Menotti, ma anche quella di Videla». Descritto più avanti come uomo devoto. Per quasi tutti fu una questione di miopia, accentuata dal fatto di scrivere dal ritiro degli azzurri, all’Hindu Club, a una trentina di chilometri da Buenos Aires. Tuttavia per il principale quotidiano del Paese, il Corriere della Sera, il silenzio fu frutto di una precisa strategia.

Erano gli anni della proprietà di Angelo Rizzoli e del controllo esercitato in maniera diretta dalla P2, attraverso la figura dell’amministratore Bruno Tassan Din e del direttore Franco Di Bella, iscritti entrambi alla Loggia massonica. In cambio dell’acquisizione del maggiore gruppo editoriale argentino, Abril, ricco di 22 testate, il Corriere assicurò una linea morbidissima nei confronti della dittatura militare, al punto da allontanare da Buenos Aires nel 1977 Giangiacomo Foà, il più coraggioso dei giornalisti nel denunciare i crimini commessi dai militari. A Buenos Aires, la sede della Rizzoli si trovava in avenida Cerrito, nello stesso palazzo che ospitava il Banco Ambrosiano di Roberto Calvi e gli uffici privati dell’ammiraglio Massera, iscritto come Calvi, Rizzoli e gli altri protagonisti di questa brutta storia alla P2 di Gelli. Per il Mondiale, Di Bella vietò la trasferta a Enzo Biagi, ritenuto poco addomesticabile, al suo posto furono scelti altri giornalisti, tra i quali Paolo Bugialli.

La censura non si limitò ai giornali. Nel Parlamento italiano furono rarissimi in quegli anni i dibattiti sull’Argentina, malgrado un milione e 600mila connazionali di prima o seconda generazione coinvolti. 

L’Italia aveva del resto molti interessi in Argentina. Tante erano le aziende, banche e assicurazioni presente con uffici e sportelli nel Paese. Un intreccio di affari che ebbe come dominus proprio Licio Gelli, talmente in confidenza con Massera da organizzare per lui il viaggio in Italia nel 1977. Oltre all’ammiraglio, Gelli aveva fatto iscrivere alla P2 il capo dell’esercito di Buenos Aires, Suarez Mason, il boia di Garage Olimpo, supporter e finanziatore dell’Argentinos Juniors. Gelli era ambasciatore economico dell’Argentina e console onorario argentino a Firenze. I suoi rapporti con il governo sono testimoniati da una serie di lettere presenti nell’archivio di Pistoia.

Gelli non ottenne riconoscimento solo in ambito editoriale, ma fu coinvolto anche in quello economico. Rappresentante di importanti banche, mediatore nella delicata vicenda petrolifera che riguardò l’Argentina e Gheddafi, agì in tandem con Umberto Ortolani, dagli Anni 60 proprietario della Banca Continental a Buenos Aires e del Banco Financiero Sudamericano a Montevideo.

Gelli, classe 1919, è morto nel dicembre 2015. Noto come Maestro Venerabile della Loggia P2

L’Uruguay era il terzo polo, dopo Italia e Argentina, della piramide piduista.  Non a caso il governo locale aveva fornito una villa a Gelli, in Calle Jean Manuel Ferrari, e non a caso il Venerabile aveva trasferito qui l’elenco completo degli affiliati alla loggia, ma soprattutto fu in Uruguay che fu organizzato tra dicembre 1980 e gennaio 1981 il Mundialito per Nazionali, sul quale forte fu l'influenza massonica. Quel torneo, al quale l’Italia avrebbe partecipato assieme alle squadre vincitrici di almeno un Mondiale, doveva servire al governo militare di Montevideo a ottenere il consenso suscitato dall’Argentina tre anni prima. In Olanda, manifestazioni di piazza condannarono la partecipazione della Nazionale dei tulipani. In Italia, 41 calciatori di Serie A scrissero un documento contro la Giunta uruguaiana. Ma i giornali, ancora una volta, quasi non se ne accorsero.

La Coppa d'Oro dei Campioni del Mondo, nota come Mundialito, si giocò a Montevideo tra le nazionali vincitrici del Mondiale

Se i rapporti tra P2 e palloni sono provati proprio dal Mundialito, come quelli tra Gelli e Argentina, resta da capire quali furono i contatti tra il Venerabile e il Mondiale del 1978. A lungo si è parlato di una presenza di Gelli a Buenos Aires il 25 luglio, giorno della finale. Tesi che non aveva trovato mai conferme dirette. Almeno fino al giorno in cui, lavorando a questo argomento, una verità è uscita. In una lettera controfirmata da Gelli, ecco cosa riassumeva di quella giornata:

”Mi trovavo a Buenos Aires il giorno della finale di calcio tra Argentina e Olanda. Arrivai allo stadio Monumental in ritardo, partecipando solo agli ultimi minuti della partita. Era una festa totale, sembrava che il Paese avesse vinto una guerra.

Una volta terminata la partita, mi recai all’aperitivo che festeggiava l’Argentina, accompagnato da altre persone. Ricordo le tantissime persone in festa per le strade. Riuscimmo a raggiungere l’Hotel Plaza grazie a un’auto di Stato che mi era stata messa a disposizione in qualità di ministro”.

Gelli, ora lo sappiamo per certo, prese parte ai festeggiamenti organizzati dalla Giunta militare al Plaza, il lussuoso albergo di una decina di piani nella zona di Retiro. Unico italiano presente alle celebrazioni durate fino a tarda notte. Fuori si continuò ad arrestare e a torturare. 

Quella sera Videla decise che non avrebbe più indossato la divisa militare, lasciando la presidenza tre anni dopo al generale Eduardo Viola. Massera pensò che avrebbe puntato a fare il presidente della Repubblica, un nuovo Peron sostenuto da un farneticante accordo coi Montoneros, sin lì torturati e uccisi. Per questo chiese di incontrarne il leader a Parigi.

Tra stucchi e sculture di inizio secolo, Videla, Massera e Agosti mangiarono accanto ai giocatori, con l’unica assenza di Mario Kempes, L'attaccante aveva preferito il silenzio della propria casa. Era il solo della Nazionale a giocare all’estero in quel periodo, il più forte, ma preferì disertare il banchetto dei tiranni. L’Argentina si era laureata campione del mondo dopo una gara combattuta, difficile, piena di contestazioni sull’arbitraggio, decisa proprio da lui.

Lo sport fu utilizzato, come in altri momenti del Novecento, per coprire gli orrori, nascondere il genocidio in atto. Serviranno anni, molti anni, per conoscere la verità e per portare infine a processo i macellai di quella stagione. Si capirà che non aveva vinto l’Argentina, ma che aveva perso un Paese, costretto a vedersi privato di una generazione. La più colta, la più moderna, la migliore. Quella composta da studenti, giovani lavoratori, artisti, bellissimi sognatori. Ragazzi e ragazze che non sono più tornati a casa.