Storie di Matteo Marani: "1990, il caso Baggio"
L'INCHIESTAIl docufilm firmato da Matteo Marani racconta fatti inediti e misteri sul contestato trasferimento di Baggio dalla Fiorentina alla Juve. Disponibile on demand
Il campione è protagonista del docufilm di Matteo Marani "1990, il caso Baggio" sempre disponibile on demand. Per raccontare, trent’anni dopo, il contestato trasferimento di Roberto Baggio dalla Fiorentina alla Juventus nel 1990.
Questa è la città di Lorenzo il Magnifico e della più grande corte artistica che l’Europa abbia mai conosciuto. È la città in cui lavorarono Brunelleschi, Donatello, Leonardo, Michelangelo, Raffaello. È la città che inventò le banche, che coniò il fiorino e che con Niccolò Machiavelli scoprì che pure la politica poteva essere un’arte. Fra l’Arno e l’incanto delle sue colline rinascimentali, questa è la città che per cinque anni ha ospitato Roberto Baggio, l’artista del calcio.
Vi arrivò nel 1985, quando la carriera sembrava già compromessa dopo la rottura del ginocchio. A Firenze spuntò invece un nuovo giglio, anche dopo un secondo infortunio che lo tenne fuori mesi. Nell’antica capitale del Granducato, che per i fiorentini tale è rimasta malgrado siano passati secoli, Baggio diventò adulto, sposò Andreina, abbracciò il buddismo, raggiunse la Nazionale, fu l’idolo di un’intera tifoseria e stregò la Juventus, disposta a fare follie per lui. Baggio divenne Baggio in quei cinque anni stupendi e irripetibili. Nel 1990, quando il Mondiale italiano bussava ormai alle porte, e del quale proprio il Codino sarebbe stato un protagonista assoluto, scoppiò in primavera – una primavera diversa da quella dolce del Botticelli – il caso più eclatante mai vissuto sino ad allora dal calcio italiano: il caso Baggio.
Migliaia di persone scesero in piazza a contestare il suo passaggio in bianconero. Da una parte gli scontri, i lacrimogeni, le cariche della polizia, dall’altra la guerra scatenata sul mercato dai maggiori club per lui. Feriti, arresti, miliardi, presidenti in fuga, altri pronti a entrare. Una storia, il passaggio di Baggio dalla Fiorentina alla Juventus, che sarebbe potuta appartenere – per restare a Firenze - alle novelle di Boccaccio o alla congiura dei Pazzi. Baggio non fu soltanto una questione di calcio, 30 anni fa. Fu un fatto sociale, politico e di costume.
Nel 1990 Baggio ha appena 23 anni. È infatti nato nel 1967 a Caldogno, nella campagna vicentina. È il sesto degli otto figli avuti da Matilde e Florindo Baggio . È una famiglia semplice, unita, laboriosa. Uno dei fratelli, Edy, diventerà anch’esso un discreto calciatore, ma nulla a che vedere con Roberto.
Il 1990 è l’anno della svolta nella carriera di Roberto. La Juventus sta per investirre 25 miliardi di lire su di lui, una cifra che nel calcio non è mai stata spesa. Né in Italia, né in Europa. Ma il suo nome sta anche per diventare motivo di scontro e polemiche che durano fino a oggi.
Mancano 3 anni alla vittoria del Pallone d’oro, il terzo italiano della storia dopo Gianni Rivera e Paolo Rossi. Mancano 4 anni a Usa 94, dove ci porterà a un passo - anzi a un rigore - dalla vittoria del Mondiale. Mancano 5 anni al primo scudetto con la Juve e 6 al secondo con il Milan. Mancano ancora, all’orizzonte, il Bologna, l’Inter, il Brescia e i 205 gol finali in Serie A.
Nel 1990, mentre stanno per cambiare la carriera e la vita di Baggio, a Sanremo vincono i Pooh. Il brano si intitola: “Uomini soli”. Sembra scritto per lui.
Baggio gioca nella Lanerossi VIcenza dal 1982 al 1985
Baggio è arrivato nella Fiorentina allenata da Aldo Agroppi nell’estate del 1985. Due giorni dopo la firma sul contratto, apposta il 3 maggio precedente, si è rotto il legamento crociato nell’ultima gara giocata con la maglia del Vicenza, la squadra della sua città che ha riportato in Serie B con 12 gol in 29 presenze. A operarlo, in Francia, è stato il professor Bousquet.
L’inizio di Baggio a Firenze è rimasto così nell’ombra. Non gioca, ma fa riabilitazione. Non segna, ma soffre in palestra. CarloVittori ed Elio Locatelli, allenatori dell’atletica leggera, lo rimettono in piedi malgrado i 220 punti di sutura alla gamba destra e malgrado i 12 chili perduti. Baggio ne pesa appena 56, ma sono tutti di motivazione, orgoglio, tenacia, ingredienti che lo risollevano mentre sta iniziando la stagione ‘86-87. Il 21 settembre giunge però un altro infortunio al ginocchio e comincia un nuovo calvario, cui l’allenatore Bersellini assiste sconsolato.
Eppure Baggio è un campione e il 10 maggio 1987, il giorno in cui il Napoli festeggia al San Paolo il primo scudetto della sua storia, Roberto segna il primo gol in Serie A. Non è un caso che tutto ciò avvenga al cospetto di Re Diego, quasi che il nobile palcoscenico conferisse al nuovo principe del pallone uno scenario degno del suo rango. Sempre a Napoli, il 17 settembre 1989, Baggio firmerà una delle prodezze più belle della sua carriera. Un’azione lunga, inarrestabile e anch’essa molto, molto maradoniana.
Baggio vola. Nel 1987-88 chiude l’annata con 9 reti, compresa quella firmata a San Siro contro il Milan, un’altra perla che ruba gli occhi ai tifosi italiani e che aumenta l’interesse - se ancora ce ne fosse bisogno - nei confronti del futuro Divin Codino. L’anno dopo è il più bello vissuto a Firenze. Non solo per i 15 gol, ma perché in attacco si ritrova accanto un cannoniere formidabile, un ragazzo meraviglioso e un amico per la vita. Si chiama Stefano Borgonovo e la sua strenua battaglia contro la Sla commuoverà il mondo. I gemelli del gol - 29 reti in quella magica stagione passata assieme - vivranno un’ultima, indimenticabile notte a Firenze, la notte che farà piangere tutti.
Roberto Baggio e Stefano Borgonovo
Il 1989-90 è il campionato della consacrazione definitiva di Baggio. Ma è pure l’ultimo in Toscana. Stavolta segna 17 reti, secondo al solo Van Basten fra i marcatori e davanti a Maradona e agli altri campioni della Serie A. Baggio ha avuto Zico come idolo e in qualche maniera lo ricorda: sta in campo con armonia, velocità, eleganza. Come Zico, è anche lui un 9 e mezzo. Da ogni giocata spuntano lampi di classe. Dribbling, gol, sterzate, punizioni, assist. Tanto, troppo per non accendere il desiderio spasmodico dei grandi club. L’ultimo impulso è arrivato con la chiamata di Azeglio Vicini in Nazionale nell’autunno dell’88.
Firenze si gode la scoperta del campione cresciuto al Franchi, una sensazione non più provata dai tempi di Giancarlo Antognoni, unico e indiscusso idolo della città, ancora oggi. Firenze è fatta così. Sanguigna, passionale, schietta come il gusto del Chianti al contatto col palato, capace tuttavia di intravedere il genio prima di chiunque altro, avendone cullati parecchi da Dante in avanti. Nel calcio, lo aveva fatto con Julinho e Montuori nel primo scudetto del 1956, con Chiarugi e De Sisti nel secondo del 1969, e prima ancora con Hamrin, nella Coppa delle Coppe vinta nel ‘61. Lo farà - dopo Baggio - con i vari Rui Costa, Batistuta, Mutu e Chiesa.
Una formazione della Fiorentina stagione 1989-1990
Esattamente come per Baggio, anche per Firenze il 1990 è un momento di forte cambiamento. Se il centro continua a rapire l’occhio e le emozioni di milioni di turisti ogni anno, il resto della città vive sospesa tra l’eredità del passato e le ambizioni di un futuro metropolitano. Col finire degli Anni 80, si è conclusa la lunga espansione iniziata dopo la tremenda alluvione dell’Arno nel ‘66 e proseguita, nel ventennio successivo, con l’estensione di Firenze verso i comuni della cintura. La popolazione, sul finire degli Anni 80, è scesa da 457mila a 403mila unità. Ma la vera sfida si gioca ora sul piano regolatore, sull’idea cioè di un nuovo “rinascimento fiorentino”, come l’hanno chiamato le giunte comunali. Oltre alla tramvia veloce e alla funicolare fino a Forte Belvedere, progetti che solamente in parte vedranno la luce parecchi anni dopo, la città si interroga sul destino della zona a nord-ovest, tra Castello e Novoli. La Fiat e l’assicurazione Fondiaria, capitanata dall’arrembante Raul Gardini, hanno individuato, in quel vasto spazio, un luogo da riconvertire con la costruzione di uffici, locali commerciali, abitazioni. Quattro milioni di metri cubi di cemento per 1.500 miliardi di lire. Ma la nuova Firenze, elaborata per anni su carta, non diventerà mai realtà, bocciata nell’estate del 1989 nel rocambolesco giro di poche ore. La contrarietà di Giuseppe Campos Venuti, noto urbanista e influente voce all’interno del PCI, risulta decisiva in un’ultima notte di tensioni. Una telefonata di Achille Occhetto, segretario del morente Partito comunista italiano, porta di colpo a cancellare il progetto della giunta di centrosinistra, che in massa si dimette dopo la decisione.
I verbali dei Consigli dell’epoca sono occupati per intero dall’affare Fiat-Fondiaria. La scottante vicenda accesa da Roberto Baggio, con arresti e scontri in piazza, finisce in secondo piano rispetto al rifiuto del piano Novoli-Castello, pagina che segna la fine politica del sindaco Bogjanchino e il passaggio dell’amministrazione - con l’elezione di Morales nel luglio ‘90 - dal PCI-PSI al pentapartito al governo a Roma.
Firenze rappresenta in effetti una metafora di quanto sta avvenendo in modo più esteso nel resto dell’Italia. Il Partito comunista vive un profondo spaesamento e lo sconvolgimento di chi - dopo 70 anni di storia e di guida della sinistra - vede crollare in pochi mesi simboli, bandiere e ideologie. L’improvvisa caduta del muro di Berlino, la sera del 9 novembre 1989, con decine di migliaia di giovani della Germania est che riversano all’Ovest ebbri di gioia per la libertà, si trascina dietro la fine del principale partito comunista d’occidente. Alla Bolognina, tra l’annuncio del novembre 1989 e il Comitato centrale del marzo 1990, Achille Occhetto dà il via alla nuova formazione politica. Non ha ancora un nome e per tutti diventa la “cosa”, mentre tocca a giornali di satira come Cuore, al cinema di Nanni Moretti e alla seguita Rai3 di Angelo Guglielmi il ruolo di riferimento culturale. Bisognerà attendere l’anno dopo, il 1991, perché a Rimini, in un congresso che segna la separazione da Rifondazione, nasca sotto la “quercia” il nuovo Partito democratico della sinistra.
Achille Occhetto
La crisi che ha colpito il PCI non lascia immuni nemmeno i partiti di governo. Gli anni a cavallo del decennio sono contrassegnati dal CAF, acronimo che racchiude le iniziali di Craxi, Andreotti e Forlani. Il primo, leader del Partito socialista, è stato il più duraturo presidente del Consiglio nella storia della Repubblica: dall’agosto 1983 all’aprile 1987. I modi sono sempre diretti, spesso bruschi per non dire prepotenti, la sostanza è un partito che tenta di incrociare i segnali di modernità della società e che al contempo cerca di intercettare i fuoriusciti dal PCI. Un’onda lunga che tocca l’apice alle politiche dell’87, ma che non raggiungerà mai il sospirato sfondamento. Se Craxi punta su intraprendenza e carisma personali, Andreotti e Forlani guidano la nave con tradizionale prudenza democristiana. I due, nella lotta delle correnti interne al partito, hanno combattuto il nemico Ciriaco De Mita, segretario DC lungo tutti gli Anni 80 e presidente del Consiglio tra l’88 e l’89. Forlani e Andreotti, che nel ‘90 siede a Palazzo Chigi mentre l’Italia si appassiona all’affare Baggio, hanno entrambi nel mirino il Quirinale. Invece, dopo la crisi dei partiti e la bomba che ucciderà a Capaci il giudice Falcone, presidente della Repubblica diventerà il collega di partito Oscar Luigi Scalfaro. Ai tre esponenti del CAF, più prosaicamente, toccheranno le aule di Tangentopoli.
Bettino Craxi, Claudio Martelli, Giulio Andreotti e Arnaldo Forlani
Se è vero che le inchieste di Antonio Di Pietro e del pool milanese divampano a partire dal 1992, la crisi del sistema dei partiti è già evidente e palpabile. La fine del comunismo e i parametri imposti da Mastricht per l’Europa unita hanno scoperchiato i limiti del sistema Italia. Gli Anni 80 hanno ingigantito il debito pubblico: dal 60% del Pil del 1980 si è saliti al 93% del 1988. Entrare nel club delle potenze industriali, nel famoso G7, ha illuso gli italiani sulla verità. Che è altra: inefficienza, clientelismo, corruzione. Le bustarelle riempiono gli uffici pubblici e inquinano gli appalti. Una di queste, usata per il Pio Albergo Trivulzio di Mario Chiesa, sarà l’innesco milanese di Mani pulite. Scrive Norberto Bobbio: "Se questa Repubblica è alla fine, finisce male, malissimo. Ma la seconda nascerà male, malissimo".
Alle elezioni regionali del 1990, si è registrato l’eccezionale exploit della Lega Nord, condotta con modi spicci dal senatore Umberto Bossi, il quale durante le adunate a Pontida mischia una strana mitologia lombardo-celtica con gli sgravi fiscali per il Nord richiesti dalla base. In Lombardia ha toccato il 19,5% nel 1990, che sarà il 24% due anni più tardi. È la prova provata che il tradizionale elettorato democristiano, la Balena Bianca secondo definizione giornalistica di Giampaolo Pansa, è ormai in libera uscita. Si può votare contro: contro Roma, contro le tasse, contro i primi immigrati che arrivano dall’Africa e dall’est Europa. Tra il 1990 e il 1991, l’Italia conosce gli sbarchi con le prime barche sovraffollate provenienti dall’Albania e dirette nella vicina Puglia. Non siamo più la terra che emigra, sono i lavoratori dei paesi più poveri a vedere nel nostro un miraggio.
Il "Senatùr" Umberto Bossi
In questo clima di attacco al palazzo, dove un ruolo non secondario lo sta per giocare il movimento referendario di Mario Segni, c’è un uomo che più di tutti accelera il processo di abbattimento della partitocrazia. Francesco Cossiga, presidente della Repubblica dal 1985, abbandona nell’estate del 1990 gli abiti notarili e piuttosto grigi delle prima parte del suo mandato per iniziare a picconare – come dice lui - contro corruzione, vecchi partiti, magistratura, contro la stessa Costituzione. Aveva iniziato annunciando la volontà di togliersi qualche sassolino dalle scarpe, invece diviene una valanga di esternazioni, sino alle dimissioni e alla richiesta di impeachment per la sua difesa di Gladio, struttura segreta impiantata dalla Nato in Italia e venuta a galla proprio nel ‘90.
Al contrario della politica interna, che mostra i segni dell’usura, il calcio italiano continua a vivere un momento di straordinaria ricchezza. Diciamo che il 1990 segna l’apice del movimento, prima di una discesa che mostrerà gli effetti più tardi. Una copertina del Guerin Sportivo restituisce l’essenza di quella stagione storica, il senso di opulenza accompagnato all’allegra spensieratezza dell’epoca.
Maglie scambiate tra i giocatori, sorrisi, al centro il totem di Italia 90: “Ciao”. Il nome della strana mascotte tricolore, disegnata dal pubblicitario Lucio Boscardin, è stato scelto in mezzo ad altri quattro, con votazione attraverso le schedine del Totocalcio. Anche quest’ultimo avrà vita breve.
Nel nostro campionato giocano 8 degli ultimi 9 palloni d’oro. Ci sono Van Basten e Maradona, Matthaus e Gullit. E poi Voller e Ruben Sosa, Balbo e Dunga. La Serie A è ricca, follemente ricca: tanti soldi, tanto pubblico, tantissimi sogni. La prova provata sta nel dominio italiano nelle Coppe. Il 1990 è l’anno della tripletta europea, un record che nessuna nazione eguaglierà più: vinciamo in Coppa dei Campioni con il Milan, in Coppa delle Coppe con la Samp di Vialli e Mancini, in Coppa Uefa con la Juventus. In campionato, dopo la vittoria dell’Inter di Trapattoni la stagione precedente, la corsa si riduce a un testa a testa fra Milan e Napoli, appaiate fin quasi al traguardo. È l’anno della monetina di Alemao a Bergamo, episodio contestato dalla Milano rossonera e ritenuto invece valido dalla Federcalcio per dare vittoria a tavolino al Napoli, così campione d’Italia per la seconda volta. È la rivincita di Maradona e di Careca, di Ferrara e del piccolo sardo Gianfranco Zola sullo scudetto gettato via due anni prima sempre nel duello col Milan di Sacchi.
Diego Armando Maradona
Molti di questi protagonisti lo saranno a breve anche nel Mondiale che si torna a giocare in Italia a distanza di 56 anni dall’unico precedente datato 1934. È un evento che mobilita l’intero Paese, con 12 città coinvolte, migliaia di volontari, milioni di tifosi attesi dall’estero. Per il governo, vale molto sul piano dell’immagine internazionale, come dimostra una lettera di eccezionale portata storica, che grazie al ricercatore Nicola Sbetti siamo in grado di mostrare per la prima volta in televisione. Siamo nel 1983, distanti dall’inizio fissato per l’8 giugno ’90. Ma la volontà del mondo politico di appoggiare la candidatura è chiara in questo documento dalla presidenza del Consiglio dei ministri
Il Governo italiano, riferendosi alle possibilità prospettate dal Comitato Olimpico Nazionale italiano e dalla Federazione italiana giuoco calcio, che la Fifa decida di assegnare all’Italia l’organizzazione del campionato del mondo del 1990, conferma il gradimento e l’appoggio a che una manifestazione di così grande rilevanza ed interesse mondiali venga ospitata nel nostro Paese.
Il Governo italiano incoraggia pertanto il Coni e la Federazione italiana giuoco calcio a fare gli opportuni passi presso la Fifa per presentare la candidatura.
Il Governo italiano è lieto di dare le assicurazioni indicate e augura che la Fifa, accogliendo la richiesta avanzata dalla Federazione italiana giuoco calcio, assegni all’Italia l’organizzazione del campionato del mondo di calcio 1990.
Bettino Craxi
Il documento della presidenza del Consgilio dei ministri firmato da Craxi
L’evento, che si concluderà con la finale all’Olimpico dell’8 luglio, marca la simbolica cesura del decennio. Italia 90 costituisce l’apice dell’effimero boom degli Anni 80 e dà il via alla resa dei conti rappresentati dai severi Anni 90, introdotti dal declassamento italiano da parte delle società di rating. Gli stadi di Italia 90 finiscono così per trasformarsi nel simbolo del malaffare e dello spreco.
L’Olimpico di Roma doveva costare 80 miliardi, invece ne sono serviti 170 per terminare copertura e spalti. Napoli, Bologna e Firenze hanno raddoppiato il preventivo. Quanto agli impianti di nuova costruzione - Delle Alpi a Torino e San Nicola a Bari - con le piste di atletica a peggiorare la vista dagli spalti, si trasformano in sinonimo di inefficienza e sperpero. Il primo sarà abbattuto e il secondo degraderà in fretta. Per fortuna, come potete vedere dai disegni di questo progetto, si è rinunciato all’ultimo al rifacimento del Flaminio, dove si voleva ospitare la finale nel ricordo del ‘34. Un impianto da 130mila posti. Enorme, dispersivo, assurdo in un calcio ormai televisivo.
Il progetto del Flaminio
L’Italia ha aspettato questo Mondiale per anni. La Nazionale attesa è la grande favorita. Il blocco si è formato nell’Under 21: Zenga e Maldini, Vialli e Giannini. Ma il grande protagonista, del tutto inatteso, diviene Totò Schillaci, che sblocca la partita contro l’Austria, al debutto, e segna contro Cecoslovacchia, Uruguay e Irlanda. I suoi occhi spalancati diventano il simbolo di quel giugno.
Baggio entra per la prima volta contro la Cecoslovacchia e realizza il gol più bello del Mondiale. Prende palla a centrocampo, triangola con Giannini, punta dritto verso la porta. 40 metri di magia conclusi con un destro perfetto che vale il 2-0. La semifinale si gioca a Napoli, contro l’Argentina, battuta nell’inagurazione dal Camerun. Tutto sembra scritto: vantaggio azzurro e finale che si avvicina. Invece si mette nel mezzo Caniggia, che beffa di testa Zenga in uscita. Perdiamo ai rigori e ci crolla il mondo addosso. La finale di consolazione a Bari, contro l’Inghilterra, non consola nessuno. Usciamo dal Mondiale senza avere perso nemmeno una partita. Una delle Nazionali più forti e sfortunate di sempre.
Italia 90 ha fatto sognare con le notti magiche, ma ha soprattutto messo in luce il talento del ragazzo di Caldogno, entrato da ultimo nel gruppo azzurro e uscito dal Mondiale come star di primo piano. Quando Baggio mette al collo la medaglia di bronzo, un bronzo dal sapore assai amaro per noi, da alcune settimane è un giocatore della Juventus. Ma è servito un tragitto lungo e sofferto.
Il caso Baggio, così come è giusto chiamarlo, inizia a delinearsi fra gli ultimi mesi dell’89 e i primi del ‘90. In ottobre la società viola annuncia che il ragazzo dovrà firmare il rinnovo del contratto in scadenza nel giugno ‘91, dall’altra parte si prepara a venderlo, consapevole che il rischio di perderlo per poco l’anno successivo è troppo elevato. Preoccupano le sirene del Milan, che nel frattempo sta parlando col procuratore del giocatore, Antonio Caliendo, per concertare il trasferimento a Milano. L’8 dicembre Gianni Agnelli esce allo scoperto: "Stiamo facendo di tutto per portarlo in bianconero".
La Juventus vuole tornare a vincere lo scudetto, che manca dall’86, e la gestione di Gianpiero Boniperti - messa in ombra dal dominio del Milan berlusconiano - sta per cedere il passo al nuovo corso targato Luca Cordero di Montezemolo. Il capo del Col di Italia 90, poi numero uno della Ferrari negli anni più belli della rossa, ha individuato a Bologna, in Gigi Maifredi, il tecnico della rinascita. Lui e Baggio sono gli obiettivi per la rifondazione bianconera. La Juve è pronta a spendere e ha in mano una carta importante: la famiglia Pontello, impegnata nel settore edilizia e nella costruzione di autostrade, ha rapporti di lavoro con gli Agnelli attraverso la Cogefar, società del gruppo Acqua Marcia finita da pochi mesi sotto il controllo Fiat. Insomma, il legame tra i Pontello e gli Agnelli è forte.
Alla Juve però risponde colpo su colpo il Milan, che continua a fare collezione di grandi campioni e che avrebbe piacere di prendersi la figurina più ricercata sul mercato. Dovrà aspettare il ‘95, dopo il quinquennio bianconero per farlo. È Adriano Galliani, amministratore delegato del club, a sondare in quelle settimane Caliendo, il quale propende decisamente per l’opzione rossonera. Anzi, dà la sua parola per cedere l’assistito al Diavolo. Accordo è fatto sulla parola. E così ci si ritrova con il Milan da un lato, la Juventus dall’altro, e nel mezzo lui: Baggio.
Separarlo dalla sua nuova città non è difficile, è quasi impossibile. Allo stadio di Firenze, nato nel 1931 come stadio Berta, là dove la passione viola ha sempre avuto la sua casa, Baggio è da tempo l’indiscussa bandiera della squadra. Gli ultras del Collettivo autonomo viola, in curva Fiesole, alcuni dei quali amici di Roberto, inneggiano di continuo al campione. E anche negli altri settori si hanno occhi unicamente per lui. La Fiorentina di Bruno Giorgi, affidata più tardi a Ciccio Graziani per via dei risultati deludenti, in campionato procede con fatica ed è molto attardata in classifica. Ai fiorentini importa poco: hanno Baggio per consolarsi, come succedeva con Antognoni.
Roberto Baggio con l'amico Maurizio Boldrini
Baggio a Firenze vive bene, benissimo. Ha preso casa a Sesto Fiorentino, uno dei primi paesi alle porte della città, da dove viaggia ogni giorno in direzione dello stadio Franchi per gli allenamenti. Villetta bianca, su due piani, abita quel luogo riservato e silenzioso con Andreina Fabbri, ragazza di Caldogno come lui. Si sono conosciuti ai tempi della scuola media. Qualche battuta, un’intesa riuscita e si sono ritrovati, quasi senza accorgersene, fidanzati sin dall’adolescenza. Firenze è stata la prima occasione per abitare insieme, per vivere un’emozionante esperienza fuori dalle famiglie. Anni belli, anni stupendi. Nell’88 i ragazzi si sono sposati a Caldogno, in una festa condivisa coi tanti fratelli di Baggio, con gli amici dell’infanzia e con quelli che si sono aggiunti nel corso della nuova esperienza a Firenze. Non si apre a tutti, Roberto, ma quando lo fa è spassoso. Nel privato è rimasto un ragazzo come tanti, lontano dal divo calcistico.
Roberto con la moglie Andreina
Questa è diventata, giorno dopo giorno, anno dopo anno, la sua città. Conosce le persone, è inserito nella vita quotidiana, frequenta pochi posti, sapendo però di contare sulla protezione dell’ambiente. Firenze è snob e passionale allo stesso tempo, aristocratica e popolana. Con Baggio è una chioccia, una seconda madre.
Baggio nel negozio di dischi dell'amico fiorentino Murizio Boldrini
Il 21 gennaio, 5mila tifosi scioperano per trattenere il giocatore, che il 16 marzo si espone: "Juventus non mi avrai. Scriverò il mio no anche sui muri". Il duello è soprattutto fra lui e il numero uno del club, Flavio Pontello. Imprenditore inflessibile e risoluto, il Conte - titolo nobiliare ereditato dal padre - è entrato al comando del club nel 1980, soffrendo due anni dopo la beffa dello scudetto evaporato all’ultima giornata. Juventus a Catanzaro, Fiorentina a Cagliari, col gol regolare annullato a Graziani. I tifosi hanno coniato uno slogan che resiste nel tempo: "Meglio secondi che ladri". Ora risuona forte nella vicenda Baggio.
La prima pagina della Gazzetta del 16 marzo 1990
Pontello è l’uomo che ha trattenuto Antognoni a Firenze, ma tutto sta cambiando. E la tensione sale. Neanche a farlo apposta, la Coppa Uefa, sulla quale la Fiorentina ha riversato le migliori energie, in finale la mette di fronte alla Juve di Zoff, al passo d’addio, desideroso di togliersi la soddisfazione di essere mandato via da vincente. L’andata si gioca a Torino ed è una specie di rissa da cui emerge la Juve con un 3-1 finale. Sui giornali si sfoga la rabbia dei calciatori della Fiorentina, minacciosi per il ritorno. Anche per la seconda gara si apre un caso e ancora prima che si giochi. La Fiorentina, dopo il lungo esilio a Perugia per i lavori di Italia 90, ha il campo squalificato. Da Firenze si chiede Montecarlo, invece la Uefa sceglie Avellino, tradizionale feudo del tifo bianconero. Finisce 0-0 e la Coppa prende la strada di Torino, di fatto assieme a Baggio.
Ad alzare la temperatura nel mese di maggio non è solo la finale Uefa. Il 22 del mese è prevista la chiusura dei trasferimenti dei calciatori azzurri, scadenza anticipata affinché il mercato non turbi la Nazionale. Il 5 maggio, sotto la sede viola in piazza Savonarola, vengono aggrediti Flavio Pontello e il fratello Claudio, già due volte deputato in Parlamento. Il primo non sporge denuncia, il secondo querela i teppisti che si celano dietro al tifo. Il giorno dopo la scena di violenza si trasferisce sulla collina di Coverciano, nella zona sud della città. È lì che si raduna la Nazionale per uno stage ed è lì che alcuni scalmanati, risentiti per le voci ricorrenti su Baggio, se la prendono con Totò Schillaci, che del numero 10 viola sarà compagno in Nazionale e in bianconero.
Non c’è pace, nessuna tregua. La città sembra ributtata in un giorno del Rinascimento, in un quadro sanguinolento di qualche grande artista del Cinquecento. Il 12 maggio la Gazzetta dello Sport anticipa lo scenario: "Baggio in libera uscita". Il 16 maggio è persino più esplicita: "E Baggio è già pronto a scrivere la parola fine". A contrastare l’inquietudine di Baggio sono la famiglia e gli amici, ma a Firenze ha incontrato anche il buddismo. All’inizio per gioco, per pura curiosità, poi si è avvicinato via via in maniera crescente a quella che è una disciplina, una filosofia. Il buddismo dà a Baggio la serenità di cui ha bisogno e gliene servono dosi massicce nelle settimane di tormento. Sempre più spesso lo si vede nella sede dell’istituto buddista italiano di Soka Gakkai, a poche centinaia di metri dalla casa di Sesto Fiorentino, edificio in mezzo al verde e alla pace in cui Robi insegue la propria, di pace. Il buddismo gli ha dato la forza di sopportare il grande dolore alle gambe, ora gli conserva il buonumore, come mostra in queste immagini inedite tratte da un viaggio in Giappone per conoscere da vicino i pilastri del buddismo, un elemento senza il quale non si può capire sino in fondo l’uomo Roberto Baggio.
Roberto Baggio in Giappone (foto di Maurizio Boldrini)
La Juventus ha in mano il calciatore. L’accordo è preso da settimane: pare che il sì definitivo sia arrivato a ridosso della partita di campionato contro la Sampdoria, il 25 febbraio. Pontello se lo è lasciato sfuggire con qualche cronista e la notizia è di dominio pubblico. L’ultimo ostacolo è stato il Milan, ma la soluzione l’ha trovata direttamente l’avvocato Agnelli. A Torino ha messo al tavolo quattro persone: lui, il suo braccio destro e capo operativo in Fiat Cesare Romiti, Silvio Berlusconi e Adriano Galliani. Una riunione cordiale, ma con un messaggio chiaro: lasciateci strada libera su Baggio. Voi avete vinto molto in questi anni, non facciamoci la guerra.
A Berlusconi lo scontro con Agnelli non conviene. Da mesi sta vivendo una guerra, ben più aspra, sul fronte della Mondadori. Non ha bisogno di aggiungere ulteriori conflitti. La Fininvest nel ‘90 ha incassato la vittoria della Legge Mammì, la quale sancisce il duopolio con la Rai. Ma lo scontro con De Benedetti per il comando della Mondadori è feroce. Di mezzo ci sono i giornali, in particolare Repubblica ed Espresso. Gli eredi Formenton avevano già un’intesa con l’ingegnere, ma attuano la retromarcia dopo avere raggiunto un secondo accordo con Berlusconi, il quale diventa presidente nel gennaio ‘90. Da lì si ricorre a una serie interminabile di lodi, ricorsi, condanne per corruzione, con l’ultima sentenza pronunciata in Cassazione nel 2007. Al di là della vicenda intricata, difficile qui da riassumere per intero, appare chiaro come nel 1990 – nei giorni in cui sulla Mondadori media il presidente della Roma Giuseppe Ciarrapico per conto di Giulio Andreotti - Berlusconi non possa mettersi contro Agnelli.
Solo in extremis, all’Hotel Hermitage di Avellino, alla vigilia del ritorno di Uefa fra Juve e Fiorentina, Galliani tenterà di riaprire con Caliendo un discorso in realtà chiuso.
Baggio è un giocatore della Juventus: 2 miliardi e 700 milioni di lire all’anno al giocatore per 4 stagioni e 20 milioni di dollari, 25 miliardi di lire al cambio, garantiti a Pontello, il quale si avvia a cedere la società. Al margine di questa tribolata trattativa, infatti, ad attenderne l’esito c’è anche Mario Cecchi Gori, il quale aspetta di acquistare la Fiorentina. Lo farà in estate, dopo la cessione del 10 viola. Ma anche per la sua famiglia non sarà una presidenza facile.
Silvio Berlusconi e l'Avvocato Agnelli
Le ultime ore dell’affare Baggio sono le più agitate e convulse. Il 17 maggio, in prima pagina, la Gazzetta anticipa la notizia: "Oggi Baggio va alla Juve". Subito dopo la finale Uefa di Avellino, Roberto non è rientrato con la squadra, ma è salito sulla Lancia Thema di Caliendo e insieme hanno preso la strada di Roma, dove ad attenderli, la mattina successiva, c’è Luca Cordero di Montezemolo.
È nel suo ufficio, a mezzogiorno del 17 maggio 1990, che Baggio diventa un calciatore della Juventus. Grazie alla disponibilità della Lega calcio, la quale ci ha cortesemente aperto i suoi archivi, ecco riprodotto in pubblico – anche qui per la prima volta – il contratto siglato quel giorno da colui che Agnelli ribattezzerà Raffaello. In effetti, da amante dell’arte, l’avvocato ha speso quanto occorrerebbe per il quadro di un grande maestro dell’arte.
Il contratto tra Baggio e la Juventus
Mentre Baggio lascia Roma e si ripara a Caldogno, dicendo di pensare a una decisione che in realtà ha già sottoscritto a Roma, a Firenze scoppia il finimondo. In serata Caliendo si presenta in sede e rilascia una conferenza stampa improvvisata, nella quale annuncia in pubblico la vendita di Baggio. Immediata è la reazione dei tifosi, che si ritrovano sotto la casa della famiglia Pontello. Lancio di uova, monete, il presidio della polizia e la furia che si scatena fino all’una di notte, quando la situazione pare placarsi. Invece sta per iniziare il giorno più lungo nella storia sportiva di Firenze.
Il 18 maggio, verso le 10 di mattina, i primi tifosi si radunano in piazza Savonarola, sotto la sede. La solita Gazzetta ha aperto con un titolo che brucia nello stomaco dei tifosi: "Baggio-Juve: sì". Dentro alla sede i giornalisti ascoltano le parole di Claudio Pontello, il quale assicura di avere presentato una offerta al giocatore, rifiutata dallo stesso, di un miliardo di lire a stagione. Baggio smentirà di averla ricevuta. È uno scarico di responsabilità continue, mentre il livello degli scontri in strada aumenta. Ognuno ha la sua verità e ognuno ha il proprio interesse in questo affare. Onesto il commento di Enrico Maida sulla Gazzetta, intitolato “Una sceneggiata piena di bugie”.
Mentre Firenze è in stato d’assedio, i protagonisti di una commedia prima grottesca e poi squallida continuano a impallinarsi senza alcun ritegno. Il procuratore di Baggio inventa la sceneggiata della “notte di meditazione” e spara una cifra (chissà perché in dollari) che non è aderente alla realtà del trasferimento. Gli spetterà comunque il 10 per cento dei compensi di Baggio, che da parte sua, sempre più travolto da eventi che sembrano più grandi di lui, interpreta un bel melodrammone.
A completare l’opera, ecco l’avvocato Claudio Pontello, non nuovo a simili exploit, che accusa Baggio di avere ricattato la società e lo butta in pasto ai teppisti. Tutto questo perché nessuno vuole ammettere di avere fatto i propri interessi.
Il 18 maggio si trasforma in un piccolo inferno. In piazza Savonarola i tafferugli diventano autentici assalti, con continue cariche delle forze dell’ordine, costrette a sparare i lacrimogeni per allontanare la folla. Ma neanche le cariche bastano a riportare l’ordine. La guerriglia dura per ore e prosegue per tutto il venerdì nero di Firenze.
È la prima volta che una città scende in piazza in modo così forte per un giocatore, per lo stesso calcio fiorentino esisterà un prima e un dopo il 18 maggio ‘90. Le sirene si alternano ai cassonetti bruciati, il sangue delle ferite agli urli e ai cori. Soltanto al passaggio di Antognoni, a questo punto l’unico vero 10 rimasto legato alla Fiorentina, i tifosi sono disposti a placarsi un attimo. Per poi ricominciare subito dopo. A sera si conteranno 30 arresti, denunce e moltissimi feriti, anche fra la polizia e i carabinieri. E non andrà meglio neppure il giorno successivo, quando a essere preso di mira sarà il ritiro della Nazionale a Coverciano. Su quella collina meravigliosa, casa del calcio italiano dal 1958, duemila persone aspetteranno Baggio sulla strada che conduce all’ingresso: Roberto vi entrerà, seminascosto, in un’auto della polizia che lo è andato a raccogliere all’uscita di Firenze Nord e che lo ha scortato sin lì.
Ecco: ma dov’è finito Baggio? Il 18 maggio, mentre Firenze brucia come ai tempi dei roghi di Savonarola, Roberto Baggio parte da Caldogno per andare a Modena. Destinazione: hotel Fini. È lì che il suo procuratore Antonio Caliendo ha fissato la prima conferenza da giocatore della Juve.
Una conferenza assurda, un po’ grottesca. Si è decisa di farla lontano da Firenze per non accendere ancora di più gli animi. Nella sala c’è molto fumo, ci sono molti giornalisti, tante domande.
Roberto dice alcune cose: "I Pontello mi hanno proposto soltanto la Juventus, nessuna alternativa. Volevo rimanere e dentro di me so di avere fatto il massimo per restare. Hanno perso solo i tifosi". Dice poi una frase fortissima: "Sono stato costretto ad andare alla Juve". Sì, obbligato. Caliendo gli passa una sciarpa bianconera. Dovrebbe servire per le foto, con sorrisi di protocollo. Baggio la getta via, non la vuole vedere. Tutti devono vedere lo strappo.
Un’altra sciarpa entra in questa storia. Stavolta viola. Sono passati dieci mesi dalla rivolta di piazza per Baggio. Il 7 aprile 1991 Robi torna a Firenze. È un giorno che tutti hanno atteso, scrivendosi la data sul calendario. Si aspetta di vedere la reazione, sua e dei tifosi, che si mostrano affettuosi con lui. Franco Zeffirelli gli ha suggerito in modo polemico di non andare: "Meglio che stia a casa".
Invece Maifredi lo mette in campo dall’inizio. Il fantasista ha poca fantasia, svagato, nervoso in campo. Però si procura un rigore. Toccherebbe a lui calciarlo, ma si rifiuta. Dirà dopo la gara di averlo fatto perché il portiere Mareggini lo conosceva bene. In realtà è una ferita che Baggio non vuole aprire nei vecchi tifosi. Lascia così il penalty a De Agostini, che si fa respingere il tiro e la Fiorentina vince 1-0. Dopo 64 minuti Baggio viene sostituito. Mentre lascia il campo, passa accanto alla panchina degli ex compagni, scambia un rapido saluto con Landucci. Poi viene gettata una sciarpa viola in campo. Baggio esita, si piega, la raccoglie, la indossa e lascia lo stadio tenendola al collo, mentre i fotografi la consegnano alla storia.
In quella immagine finale c’è anche un significato più ampio. Non scritto, ma chiaro. Un decennio si è chiuso. Anzi, si è ormai concluso il calcio delle bandiere. Quello che dieci anni prima aveva permesso al giovane Giancarlo Antognoni di rimanere nella sua Firenze, cosa negata ora a Baggio. Che aveva conservato Gigi Riva a Cagliari, Giacomo Bulgarelli a Bologna, Paolo Pulici a Torino, Totonno Juliano a Napoli, fino ai tanti, piccoli re di provincia. Tutto sta finendo e sta cambiando in quel calcio del 1990.
Farà ancora in tempo la Samp a conquistare l’anno seguente l’ultimo scudetto fuori delle metropoli, anche lei costretta tuttavia a cedere poco più tardi Vialli e Mancini. Da allora solamente tre città hanno vinto: Milano, Roma e Torino. Negli Anni '60, '70 e '80 avevano vinto il campionato 6 squadre diverse ogni decennio, negli Anni '90, 4, negli Anni zero, 3, nell’ultimo decennio, solo 2, con il lungo filotto juventino. Quella Juventus che nel 1990 cambiò gli equilibri fra grandi e piccole e in qualche modo la vita di Baggio.
Roberto Baggio e Luca Vialli alla Juve nel 1992
Finiva la stagione delle bandiere e di un calcio più artigianale, fatto in casa. Il calcio delle radioline, delle partite viste allo stadio, degli impianti per contenere centinaia di migliaia di persone, degli almanacchi Panini al posto di wikipedia, delle vincite miliardarie al Totocalcio, del mercato ancora privo di agenti, delle plusvalenze che non c’erano, delle lettere ai giornali al posto dei social odierni e di un odio che – prima di Baggio – era sconosciuto nel pallone.
Baggio fu spartiacque e pioniere. Andò alla Juventus per diventare uno dei più grandi calciatori di ogni tempo, ma perse il titolo di fiorentino più amato di sempre. In una città in cui da allora le cose sono cambiate, che ha vissuto le cadute in B e persino la C dopo il fallimento societario, quella pagina non è mai stata dimenticata. Una città unica, splendida, meravigliosa, che per cinque, lunghi anni tenne a corte, come avevano fatto secoli prima i Medici, il più grande artista che l’Italia del dopoguerra abbia avuto. Napoleone aveva portato via i capolavori dagli Uffizi, i miliardi si portarono via da Firenze la più bella opera d’arte del calcio: Roberto Baggio.