Kakà: "Che errore andare a Madrid, rapporto difficile con Mourinho. Istanbul? Una lezione"
CalcioLunga intervista rilasciata dal campione brasiliano ex Milan ai microfoni di UOL Esporte. Dalla difficile esperienza al Real: "In Italia tutti mi amavano, in Spagna volevano che me ne andassi", alla notte di Istanbul: "La più grande lezione che abbia mai ricevuto". Passando dal Pallone d'Oro: "Spero vinca Neymar" - al suo futuro: "Sarò un dirigente"
A breve gli anni saranno 36. Il 22 di aprile per l’esattezza, come quel numero che ha portato sulla schiena soltanto nel Milan. Quel 22 con le dita puntate al cielo, quello delle cavalcate nella metà campo avversaria e dei gol. La sua visita a Casa Milan della scorsa estate aveva fatto brillare gli occhi di tutti i suoi vecchi tifosi, perché riavere Kakà nel club sarebbe stato un sogno per loro. E lo ha confermato, nuovamente, anche lui del suo futuro: “Mi piacerebbe fare il dirigente. Niente commentatore o allenatore, ma sono in un momento in cui devo visualizzare ciò che voglio fare realmente”. E magari potrebbe esserci un incarico nel Milan, o nel San Paolo in Brasile, vecchio e primo club della sua vita: “Con loro un legame che trascende il campo, anche se non ho vinto nulla”. Ciò che è ancora più certo è però il suo passato: le difficoltà di Madrid, il rapporto con Mourinho, la sconfitta di Istanbul, il suo Pallone d’Oro - l’ultimo prima della decade Messi-Ronaldo - fede, verginità e divorzio. Si è raccontato in una lunga intervista rilasciata per i brasiliani di UOL Esporte Kakà, il giocatore "perseguitato dalle etichette", come recita il titolo del pezzo. Il credente. Il bravo ragazzo. Il vergine. Il campione. L'ultimo miglior brasiliano al mondo. Il dirigente. E tanto altro ancora, e il fenomeno col 22 sulle spalle lo ha fatto come sempre: con trasporto e sincerità.
La Spagna, un errore
La sincerità di Kakà passa anche dal Real Madrid, un sogno per molti - compreso il suo - poi però trasformatosi in una sorta di incubo: “Lì in Spagna ero completamente perso. In Italia ero considerato il migliore al mondo e tutti mi amavano, a Madrid volevano tutti che me ne andassi. Mourinho? Aveva tutte le ragioni per farmi fuori, nella mia testa volevo provargli che ero in condizione di essere tra i migliori in quel momento, ma non ha funzionato. Mi sono allenato, ho combattuto e ho pregato - ha proseguito Kakà ai microfoni della testata brasiliana - ma i risultati in campo non sono mai arrivati. Lui mi è stato vicino e mi ha aiutato, ma il problema ero io. Quando ho lasciato Madrid lui ha detto che sono stato uno dei giocatori più professionali con cui abbia mai lavorato”.
La notte più buia
Eppure prima della delusione Real, dello sconforto e di un giocatore quasi irriconoscibile, c’era stato il Milan. Uno scudetto e una Champions - tra gli altri trofei - vinta nel segno di Kakà. A cancellare quella delusione che, parola sua: “È stata la peggior sconfitta della mia storia: una delle più difficili da superare e allo stesso tempo una delle più grandi lezioni che io abbia mai avuto nel calcio”. Luogo, data e evento sono quasi scontati. Istanbul, 25 maggio 2005, finale contro il Liverpool: ”Lì ho imparato che non avevo il controllo sulla vittoria. Dopo quel match - dice Kakà - ci sono state diverse speculazioni sulle nostre celebrazioni nell’intervallo: non avvenne nulla di tutto ciò, vista l’esperienza che aveva quella squadra. Alla fine fu un risultato incredibile: quel Milan è stato una delle migliori formazioni della storia, una delle migliori difese che sia mai esistita, e abbiamo subito tre gol in sei minuti”.
Brasile e Pallone d’Oro
La vendetta, parola evidentemente non inserita nel vocabolario di Kakà, da sempre molto religioso e ligio ai suoi valori, venne consumata un paio d’anni più tardi. La rivincita ad Atene, la doppietta di Inzaghi e un suo assist decisivo per il 2-0. Al fischio finale via la maglietta bianca del Milan, “I belong to Jesus” - scritto sul petto. Quella Champions, vinta ringraziando Dio, che gli valse anche il Pallone d’Oro: “Messi e Ronaldo? Spero continuino a vincere, anche perché così tutti continueranno a ricordare che l’ultimo prima di loro l’avevo vinto io - dice Kakà, facendosi una risata durante l’intervista - ma se la loro era dovesse finire sarei molto contento che tornasse a vincerlo un brasiliano come Neymar”. Perché anche la nazionale e la sua terra sono incise a fondo nel suo cuore, per un Kakà che racconta poi delle sue esperienze in verde-oro. Dal Mondiale vinto nel 2002 come ventitreesimo della squadra: “Per me fu molto improntate essere lì, anche giocando solo venticinque minuti. Fu una crescita fondamentale”. Al Mondiale del 2006, durissimo, quando fu accusato di essere tra i principali fallimenti di quella spedizione. Chiudendo, dunque, il cerchio nel 2014: “Feci di tutto per farmi convocare ai Mondiali di casa. La prima decisione fu quella di lasciare il Real Madrid, perché lì non avrei avuto abbastanza spazio. Dovevo andare in un posto dove avrei avuto fiducia e avrei potuto giocare con continuità. E così ho optato per tornare al Milan. Non sono stato convocato, però non ho mai provato rancore verso Scolari”.
L’addio
A quel punto per Kakà era arrivato di fare un passo indietro. Le sue tre ultime stagioni sono state a Orlando, in Florida, dove, dice il brasiliano: “Passi abbastanza inosservato, è come se un giocatore della NFL andasse in Brasile. Ma lì il calcio sta crescendo molto”. Dunque il ritiro, una scelta ponderata, valutata con tanti altri campioni suoi ex compagni. Da Ronaldo a Beckham, fino ad Elano. Ma l’epifania fu quando tornò nei suoi stadi ma da spettatore: “Tempo fa avevo assistito a una partita del Real Madrid contro il Borussia Dortmund, e a una de Milan a San Siro. Sono entrato in campo, i tifosi urlavano il mio nome e ho sentito il calore dello stadio. Mi sono reso conto che ero nel posto in cui dovevo essere: sugli spalti, a guardare e tifare”.