Giorno della Memoria: Arpad Weisz, la tragedia di un'intera famiglia
27 GENNAIONel Giorno della Memoria, 27 gennaio, il calcio ricorda il dramma dell'ex allenatore Arpad Weisz, dagli scudetti sulle panchine di Inter e Bologna alla morte nel campo di concentramento di Auschwitz 80 anni fa. La Shoah coinvolse anche la sua intera famiglia, la moglie Elena e i figli Roberto e Clara, ricordati in una storia commemorata in tutta Italia e in tutto il mondo. Riportata alla luce dal presidente della Lega Pro Matteo Marani
Oggi è il 27 gennaio e per noi del calcio, esattamente come per tutta la società civile, è il Giorno della Memoria. Anche noi abbiamo avuto i nostri caduti, le nostre tragedie, le vittime della Shoah. Da anni, seppure ami pochissimo parlare o scrivere in prima persona, me ne occupo per via della biografia da me dedicata ad Arpad Weisz, sfortunatissimo allenatore ebreo che morì ad Auschwitz il 31 gennaio 1944, giusto 80 anni fa, tra i 6 milioni di morti dei campi di sterminio. È stata una ricerca lunga almeno tre anni, consumata tra archivi, carte, polvere unita a oblio, viaggi in mezza Europa e una rincorsa ossessiva per scoprire la verità. Chi ha letto il testo, sa come sono andate le cose.
Di lui oggi tanto è finalmente noto, scritto e raccontato, dopo che per oltre 70 anni la sua storia era sparita nel silenzio. La sera prima che il libro uscisse, in un’inspiegabile eclissi del destino di quest’uomo, digitai il suo nome: appariva in appena 6 siti internet, citato soltanto per le rose delle squadre allenate. Mentre scrivo queste righe, sono più di 200mila pagine, in ogni lingua. Lapide in memoria di Weisz sono state disvelate a Bologna (la prima, la mia città), Milano, Alessandria, Novara, Bari, dove grazie ai veterani dello sport fu intitolata la prima via in Italia al tecnico ungherese. Furono le sue squadre, tutte da lui allenate. Ma oggi il volto di Weisz è nel mondo: a Stamford Bridge è in un grande murales fuori dello stadio, a Budapest si trova una statua – inaugurata in occasione della finale di Europa League la scorsa primavera – sul campo in cui cominciò la sua carriera di calciatore. In Giappone è stato tradotto “Dallo scudetto ad Auschwitz”. Non ci sono meriti per la ricerca, penso invece che la storia fosse matura per essere raccolta e narrata. Ha scritto Gianni Mura che erano state le voci nel vento, riprendendo Guccini. E non esiste un’immagine migliore. Sono grato ai tanti lettori che hanno diffuso la triste favola nera di Arpad, un tam-tam che si alimenta ogni anno, anche lontano dal Giorno della Memoria. Un grazie va alle tante persone comuni che hanno fatto loro questo racconto e ai tantissimi insegnanti che nel tempo mi han invitato in ogni scuola d’Italia (agli studenti non si può dire di no, il libro è soprattutto per loro), ai giornalisti che hanno scritto di Weisz, a Federico Buffa che diversi anni fa lo rese ancora più celebre e conosciuto attraverso SkySport.
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In realtà, la tragica vicenda umana dell’allenatore dei tre scudetti in Italia (Inter 1929-30, Bologna 1935-36 e 1936-37) è la storia di un’intera famiglia, che talvolta viene dimenticata nelle ricostruzioni dedicate al protagonista più famoso di casa. Finisce così che mi senta un po’ custode del ricordo degli altri tre di casa, quelli che meno compaiono – come è ovvio che sia – negli articoli e nei resoconti. Penso alla moglie, Elena Reichnitzer, morta con il nome di Ilona ad Auschwitz il 5 ottobre 1942. Per anni ho sperato di trovarne una fotografia, l’unica che mancasse nell’album di famiglia. Poi una sera mi si presentò una persona: «Sono Giuseppe Viola, figlio di Jozsef». Connazionale, compagno di squadra, infine collega di Arpad, al quale lasciò la panchina dell’Inter, allora Ambrosiana, l’anno prima dello scudetto, nelle istantanee dei genitori, c’era pure quella di Ilona. Struggente. Penso a Clara Weisz, che il giorno dell’ottavo compleanno fu caricata a forza sul treno per essere deportata a Birkenau. Stessa sorte del fratello maggiore Roberto, a cui devo la traccia più importante nell’indagine storica. È stato un suo compagno di classe, oggi non più tra noi, a consegnarmi le lettere scambiate dagli amichetti di quel tempo, grazie alle quali ho capito la sorte toccata a tutta la famiglia dopo il gennaio ‘39, quando lasciarono l’Italia dalla dogana di Bardonecchia. Quel signore, e prometto che non scriverò più in prima persona, era il nonno di un nipotino che è stato compagno di classe, alle elementari, di mio figlio. Perché i Weisz, seppure a 70 anni di distanza, erano vicini di casa, vivevano sotto i dolci portici di Bologna, i bambini andavano a scuola come i presunti ariani-mediterranei, così diceva la propaganda. Fra tutti i tributi, per me il maggiore resta la lapide per Roberto alle scuole Bombicci. Nel dramma di Weisz, vorrei che rimanesse presente e chiaro il tragico destino di un’intera famiglia. Quest’estate sono passato da Dordrecht, la città nella quale andarono a vivere nel ‘39 e dove vennero arrestati all’alba di un giorno di agosto del ‘42. Fuori di casa, sono state messe da poco quattro pietre di inciampo. Stanno lì, lucenti sul selciato, con la luce che cade sul metallo e sulla coscienza di tutti noi. Questa è infatti la storia di Arpad, Ilona, Roberto e Clara. La follia omicida del nazismo li sterminò senza un senso.